COSENZA – La Calabria è ancora una volta protagonista di una triste storia, emblematica della libertà di stampa e, più in generale, di espressione. Una parabola, peraltro, rappresentativa dello stato di queste fondamentali libertà nel nostro Paese e non è di poco rilievo che il nostro territorio sia all’avanguardia in tale frangente.
E, sicuramente, il giornalista Agostino Pantano non sarà particolarmente contento di costituire, nel merito, un caso esemplare. Nel 2010, quando era in forza a “Calabria Ora”, pubblicò la Relazione della Commissione d’accesso che nel 2008 portò allo scioglimento per infiltrazioni mafiose del comune di Taurianova, fatto che gli causò da parte dell’ex sindaco, Rocco Biasi, una querela per diffamazione. Nonostante la decisione del GIP del Tribunale di Cosenza di archiviare il caso, sia per l’insussistente diffamazione che per la diffusione di notizie coperte dal segreto d’ufficio, riconoscendo al giornalista il legittimo “esercizio del diritto di cronaca e di critica politica, sussistendone i presupposti di interesse pubblico, verità della notizia e continenza”, il 16 aprile prossimo, Pantano dovrà comparire davanti al Giudice monocratico del Tribunale di Palmi per rispondere del reato di ricettazione di notizie sottoposte al segreto d’ufficio, ritenendo che il giornalista si sia appropriato in modo illecito della Relazione : un’accusa per la quale rischia fino a 8 anni di reclusione.
Ma anche oggi, come giornalista del Garantista, non gli è andata meglio visto che è stato citato per aver pubblicato articoli, nel gennaio scorso, relativi all’acquisto da parte del Comune di Rosarno dell’ex Cinema Argo, vicenda che vede coinvolti l’ex sindaco Giacomo Francesco Saccomanno e due imprenditori, i fratelli Giovanni e Domenico Garruzzo (l’ultimo dei quali, peraltro, ex consigliere comunale di maggioranza): citazione che gli vede addebitare un risarcimento danni, morale e materiale, pari a mezzo milione di euro.
Ora, non mi interessa dare giudizi entrando nel merito dei fatti : non è di mia competenza. La giustizia farà il suo corso e darà il suo responso.
E’ certo, però, che (a parte il corollario non edificante della definizione del giornalista come “killer di professione”, pure tacendo degli altri gravi epiteti con i quali è stato apostrofato) il caso di Pantano arricchisce la casistica di una terra dove fare giornalismo sta diventando sempre più difficile. Non è inutile richiamare il caso di un altro giornalista della Piana, Michele Albanese, costretto a vivere sotto scorta e spostarsi in auto blindata.
La minaccia della querela e dell’iniziativa giudiziaria per diffamazione non può diventare uno strumento di oggettiva intimidazione di un lavoro sensibile quale quello nell’informazione, che dovrebbe essere popolato di professionisti liberi di potersi esprimere e di poter fare il loro mestiere liberi da pressioni o più o meno velate minacce. Come legislatore mi sento libero, pertanto, di potermi sbilanciare nel ritenere che occorra rimettere mano alla normativa, affinché fare il giornalista in Calabria non diventi una missione impossibile: in Italia già è difficile.