COSENZA – I difensori dei familiari di Cesare Ruffolo, gli avvocati Massimiliano Coppa, Giovanni Ferrari e Luigi Forciniti, hanno depositato il ricorso per cassazione per chiedere l’annullamento della sentenza di assoluzione del dott. Marcello Bossio, primario del reparto di immunoematologia dell’Ospedale di Cosenza quando a Cesare Ruffolo fu somministrata una sacca con sangue infetto da serratia marcescens che lo condusse a morte in poche ore.
La famiglia Ruffolo infatti, fa sapere che “..non ritiene coerente la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Catanzaro quale giudice del rinvio, dopo due sentenze di condanna che avevano cristallizzato le prove di colpevolezza del primario Bossio e della gestione complessiva ed organizzativa dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza, individuate dalla Procura della Repubblica di Cosenza, a seguito del complesso l’impianto accusatorio ricostruito dai P.M. Salvatore Di Maio e Paola Izzo, sulla scorta delle indagini del NAS dei Carabinieri di Cosenza e dei vari accessi delle Commissioni Ministeriali disposti dall’allora Ministro della Salute Beatrice Lorenzin”.
Ed infatti, precisa la famiglia, che “..le ispezioni Ministeriali disposte dal 2012 e fino all’agosto del 2013 avevano accertato che le non conformità rilevate durante le visite ispettive all’interno del centro trasfusionale dell’Ospedale di Cosenza, dove transitarono e furono verificate le sacche infette, contribuirono a determinare le condizioni predisponenti la genesi dell’infezione post trasfusionale contratta dai pazienti dei quali uno deceduto..”.
Intanto, anche la Procura Generale della Repubblica di Catanzaro, ha impugnato l’assoluzione di Bossio emessa dalla Corte di Appello di Catanzaro rilevando l’assoluta erroneità della motivazione con la quale i giudici di Appello avevano mandato esente da responsabilità il medico con la formula per non aver commesso il fatto, rilevando numerosissime criticità nella condotta del Bossio in qualità di primario ospedaliero in posizione apicale.
Del resto, le sentenze del Tribunale di Cosenza e della Corte di Appello di Catanzaro precedenti al giudizi di rinvio, avevano messo a nudo un sistema di gestione molto discutibile e di chiara matrice difettuale oltre che non idoneo a garantire i minimi livelli di assistenza adatti ad un ospedale come quello di Cosenza, per come agevolmente evincibile dai rapporti ispettivi ministeriali, soprattutto in riferimento all’ interscambio ed all’approvvigionamento dal sangue necessario per tutte le attività sanitarie assistenziali oltre che in riferimento ai meccanismi di controllo.
Hanno concluso gli avvocati della famiglia: “Che l’esercizio dell’ars medica sia suscettibile di dar luogo ad errori e a potenziali responsabilità nell’alveo penale ed in quello civile, rappresenta una implicazione condivisa con qualsiasi altra attività umana, ma la vicenda del paziente Ruffolo ha investito inaspettatamente e con troppa violenza la sua famiglia con una inaccettabile inferenza sul rapporto fiduciario tra il cittadino ed il diritto alla salute irrimediabilmente compromesso, oltre che con una inspiegabile indifferenza della parte contrapposta. La vicenda impone il vaglio della Corte di Cassazione – e condividiamo pure i motivi di ricorso proposti dal Procuratore Generale di Catanzaro – non fosse altro che per quelle esigenze di garanzia riconnesse all’esercizio dell’attività medica che prevedono specifici spazi di interlocuzione tra tutti i soggetti del rapporto”.
Nonostante le plurime responsabilità accertate a carico dei soggetti che a vario titolo presero in carico il loro congiunto la famiglia Ruffolo, poi, segnala ancora anche il totale silenzio mantenuto dai vertici dell’Ospedale di Cosenza in tema di risarcimento del danno per la morte del proprio congiunto, nonostante le molteplici quanto gravissime criticità rilevate dagli Organi di Vigilanza ministeriale intervenuti. La parola passa alla Corte di Cassazione.