In nome di Marco, le verità sul caso Pantani

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La prima volta che ho visto mio padre commosso è stato dopo una scalata vincente di Pantani”. La confessione mi è arrivata un mese fa. Spiega in una riga quanto affetto si nutriva e si nutre per Marco Pantani. Ancora oggi, a distanza di nove anni da quel 14 Febbraio 2004 (data della sua morte, non del suo suicidio), la storia del Pirata commuove ed irrita. Scendono lacrime perché Pantastique non può più vincere una tappa, confermare la sua grandezza gettando via prima la bandana e poi l’orecchino, imporre agli avversari di guardare il tocco finale dei suoi capolavori, esibire palesemente la sua sofferenza. Ci si indigna perché Pantani è stato acclamato come un fuoriclasse nel suo periodo dorato e ripudiato nel momento stesso in cui un controllo tarocco sul suo livello di ematocrito ne ha decretato la caduta.

La verità sul caso Pantani è stata dirottata perché Marco era personaggio scomodo, uno da “pane al pane e vino al vino” che si lamentava per tutti quei controlli sul sangue che facevano dei ciclisti delle cavie da laboratorio. Per fortuna, sua madre Tonina, l’amico e giornalista Francesco Ceniti e il suo avvocato viaggiano in “direzione ostinata e contraria”. Ospiti della libreria Ubik di Cosenza, per la presentazione del libro (scritto dalla signora Pantani e dal giornalista) “In nome di Marco”, hanno avuto la possibilità di contraddire le tante falsità scritte e dette sul ciclista e di confidare ulteriori aspetti della vita di Pantani.

Dalle loro toccanti parole (la madre, in preda alla commozione, ha cercato di dire il meno possibile), il ciclista romagnolo è stato riconsegnato come un uomo che sin da bambino scalava le montagne ed aiutava i più bisognosi. Un esempio anche per chi era incapace di salire in bici e guardava le gare alla tv. Sua madre però non gli perdonerà mai di essersi lasciato abbindolare da quella “porcheria” chiamata cocaina. Con le loro parole è possibile riabilitare l’ uomo e lo sportivo che in tanti (Candido Cannavò compreso) hanno offeso e a cui una moltitudine di persone dovrebbe chiedere perdono. Fra i primi: Lance Armstrong. Il cannibale, intimorito a suo tempo dalla potenza del Pirata, ha svuotato il sacco: ha ammesso di essersi dopato e di essere stato protetto da un sistema che non punisce i veri dopati, sfruttandone la valenza economica.

Occorre quindi ordinare i pezzi e riscrivere la storia del Pirata nella maniera più autentica possibile (Philippe Brunel, nel libro-inchiesta “Gli ultimi giorni di Marco Pantani”, lo ha fatto egregiamente). Pantani non è mai stato trovato positivo ad un controllo anti-doping. A Madonna di Campiglio il suo valore di ematocrito non era superiore alla norma (50). Doveva, per regolamento, scegliersi una provetta, ma ciò non gli è stato permesso. Quando il suo corpo è stato ritrovato senza vita nella stanza D5 del Residence le Rose di Rimini, le indagini sono state svolte con fretta e superficialità (era comodo pensare che c’era un morto di overdose). Nessun rilevamento di impronte. Nessun accertamento su una ferita alla fronte, su una sotto l’arcata sopraccigliare e su una tumefazione al setto nasale (visibili sul cadavere di Pantani), su una pozza di sangue sul pavimento, un pezzo di lenzuolo macchiato, un kleenex usato. Nessun approfondimento del perché, alle due segnalazioni del Pirata alla reception: “ci sono due uomini che mi stanno disturbando”, non ci sia stata alcuna risposta. Nessuna spiegazione sul filmato della scientifica (intenta a raccogliere indizi nella stanza d’albergo) ricco di buchi. E poi, come riesce a morire un uomo, mangiando autonomamente una quantità di coca sei volte superiore al consentito ?

L’ elenco potrebbe continuare e tenere svegli fino all’alba. E’ dovere della magistratura e dei giornalisti (categoria che ha omaggiato Pantani di indifferenza) accertare cosa sia veramente successo in quella stanza D5. Partendo da una premessa, da una colpa che Tonina Pantani non potrà mai perdonare a suo figlio: quella di aver vissuto gli ultimi anni dissolvendosi tra la droga, le brutte amicizie e le prostitute, perché era insormontabile la montagna della vergogna.

Le tante lacrime versate in questi ultimi anni sono state rimpiazzate dalla rabbia. Ma non è troppo tardi per restituire la dignità all’uomo vinto, abbattuto. Non è troppo tardi per tornare a commuoversi per una vittoria, per risalire in sella ad una bicicletta e divertirsi ad imitare “Pantadattilo”.

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