“Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste”, seminario all’Unical

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ARCAVACATA DI RENDE (CS) –  I dipartimenti di Scienze politiche e sociali e di Studi umanistici e la Donzelli editore, organizzano un seminario di studi e di discussione pubblica su un tema cruciale del nostro Paese e per il Mezzogiorno e la Calabria in particolare: lo stato di abbandono e le prospettive demografiche, economiche e civili delle aree interne e marginali. Il seminario prende spunto dal volume Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli 2018), curato da Antonio De Rossi (Politecnico di Torino), che ospita numerosi saggi di urbanisti, sociologi, politologi, antropologi, economisti.

Al confronto pubblico parteciperanno molti “lettori” e diversi autori, di estrazione ed esperienza differenti: Antonella Rita Ferrara, ricercatrice nel Centro comune di ricerca (Jrc) della Commissione europea di Ispra, Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace e costruttore di un caso paradigmatico di inclusione umana e sociale, Sabina Lucatelli, coordinatrice della Strategia nazionale per le aree interne presso la presidenza del Consiglio dei ministri, Salvatore Orlando, esperto di politiche europee di sviluppo locale, Giacomo Panizza, fondatore e animatore della comunità Progetto Sud, Giovanni Soda, dirigente del Nucleo regionale di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Calabria, Tonino Perna, sociologo-economista promotore di svariate iniziative di sviluppo sostenibili a scala locale e globale, Pietro Clemente (Università di Firenze), Antonio De Rossi (Politecnico di Torino), Laura Mascino (Politecnico di Milano) nonché alcuni colleghi Unical (Domenico CersosimoAlessandra CorradoMariafrancesca D’AgostinoSabina LicursiFrancesco RanioloRosanna NisticòVito Teti).

Il seminario sarà introdotto e coordinato dall’editore Carmine Donzelli; il rettore Gino Mirocle Crisci porterà i saluti istituzionali.

La discussione e il confronto sarà sull’Italia in ombra, quella fragile, delle aree interne, dei borghi in contrazione. Un’Italia “altra” rispetto al senso comune, che le élites del nostro paese disconoscono, nonostante che i “territori del margine” siano disseminati nell’intera penisola: nelle valli e nelle montagne alpine, nei filamenti territoriali più impervi e arroccati della dorsale appenninica, nella aree-“osso” del Mezzogiorno continentale e insulare. Luoghi della rarefazione demografica, dell’abbandono e del degrado dei patrimoni abitativi, del deficit grave di servizi di cittadinanza, delle disuguaglianze e del disagio. Non piccole enclaves, bensì territori dove risiede circa un quarto della popolazione italiana e che coprono oltre i due terzi dell’intero territorio nazionale. Un’area enorme differenziata che meriterebbe di essere tematizzata come una grande “questione nazionale”.

Seppure l’Italia sia il paese delle varietà radicate, dominano rappresentazioni e letture polarizzanti, dicotomiche: il Nord compattamente moderno, sviluppato, civile contrapposto al Sud, altrettanto compattamente, tradizionale, sotto-sviluppato, altero, “amorale”; città e pianure alle prese con la modernità e l’innovazione, di contro campagne e montagne ripiegate sulla tradizione; la grande impresa considerata efficiente e dinamica giustapposta alla piccola impresa ritenuta inefficiente e marginale. Immagini che annullano l’irriducibile “granularità” dei processi socio-economici e culturali, e che trascura le molteplici connessioni e complementarietà funzionali tra territori, tra montagna e pianura, tra l’Italia “vuota” e quella “piena”, tra svuotamenti e riempimenti, tra ambienti urbani e rurali.

Per “riabitare l’Italia”, bisognerebbe osservarla da nuove angolazioni, ricentralizzando il margine, l’inesplorato e l’apparente invisibile. Non per contrapporre l’Italia del margine a quella dello sviluppo, le aree interne alle metropoli, le aree dense a quelle vuote; bensì per legare le une alle altre, per rafforzare e coltivare la fecondità degli incroci e delle reciprocità dinamiche. Lo spopolamento e l’abbandono delle aree più fragili sono un danno per la qualità sociale dell’intera nazione. Senza presenza umana stabile, le montagne e le colline accentuano lo sgretolamento dell’assetto idrogeologico e gli squilibri ambientali con effetti negativi sulle valli, le pianure e le città sottostanti. Sicché bisognerebbe invertire lo sguardo, considerare le aree interne e le aree più fragili non solo come un problema ma anche come una opportunità: per proteggerci dai disastri climatici e, nel contempo, per avviare nuove economie ecocompatibili, nuovi lavori di cura delle persone e della natura, nuovi spazi di vita.

Da qualche tempo, l’infragilimento delle comunità e dei territori interni è contrastato da interessanti fenomeni di “rinascita” locale, per quanto non in modo diffuso e intenso, attraverso l’insediamento di nuovi contadini, immigrati, cittadini a tempo parziale, forme di turismo non convenzionali, esperimenti di pratiche di rigenerazione rurale centrate sulla valorizzazione culturale e su microservizi di welfare autosostenuti. In alcuni casi, di vera e propria “riconquista” civile di luoghi condannati da decenni all’abbandono fisico e umano, nell’indifferenza di forze politiche e istituzionali.

Nell’insieme però questi luoghi continuano a soffrire, ancor più della gracilità della base produttiva e occupazionale, per la forte e persistente sottodotazione quantitativa e qualitativa di servizi pubblici essenziali, dal sistema scolastico ai servizi sanitari, ai trasporti, che non consente ai residenti di godere appieno dei diritti di cittadinanza fondamentali e spinge all’esodo e allo spopolamento. Il deficit assoluto di servizi essenziali, a sua volta, influenza negativamente l’attrattività e la competitività delle imprese – in quanto un welfare locale efficace rappresenta un fattore rilevante per la vita dei lavoratori e delle loro famiglie, alimentando così una vera e propria trappola del sottosviluppo. Colmare questo deficit di servizi civili è una priorità assoluta se si vuole evitare l’ulteriore svuotamento umano e la desertificazione economica. D’altro canto, disuguaglianze così marcate di cittadinanza tra aree e ceti sociali sono inaccettabili in un paese unitario: non è in alcun modo giustificabile che un bambino che nasce in montagna debba godere di una scuola di minore qualità rispetto ad un bambino che vive in città; oppure che un anziano che risiede in un’area fragile debba fruire di un paniere meno ampio e di minore qualità di servizi sanitari essenziali rispetto ad un suo coetaneo che vive in un aggregato urbano.

 

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