‘’Noi vogliamo cantare l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità’’ recita il primo punto del ‘Manifesto del Futurismo’ scritto da Filippo Tommaso Marinetti all’inizio del Novecento.
E ancora: ‘’Non v’è più bellezza , se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia carattere aggressivo può essere un capolavoro’’. Dunque, mentre in Italia il Cinema riscontrava enormi difficoltà ad essere reputato un’autentica forma d’arte, con una borghesia conservatrice che continuava a preferirgli il teatro, dimora di uno status, qualcuno urlava: ‘‘La poesia è azione’’, coinvolgendo in questa demistificazione anche il ‘cinematografo’.
Prima di allora, sempre ben attenti a non scomodare le coscienze del pubblico, si scavalcava con disinvoltura l’estro del regista, a favore di figure intellettuali più note e passatiste, a cui veniva attribuita la paternità dell’opera.
E’ questo il caso di ‘’Cabiria’’, film accreditato a Gabriele D’annunzio che ne risulta l’autore , pagato profumatamente dal reale regista, Giovanni Pastrone, deriso a sua volta dallo scrittore che in privato non esitava a definirne l’opera : ‘una boiata’.
In questa atmosfera, di certo il Cinema non trovava terreno fertile per esplodere in tutta la sua comunicatività, afflitto da tendenze viziose e tradizionaliste.
Con spirito moraleggiante, ci piace inquadrare, così, il Futurismo nel cinema come esigenza, una guarigione miracolosa, un’urgenza, un rivolgimento rapido che ha mutato la storia.
La figura del cinematografo era già di per sé futurista, nata da pochi anni, si presentava priva di passato e libera da tradizioni, non poteva che prender parte a questa grande guerra igienica, dunque, sostituendo la prevedibilità del dramma, la solennità del grazioso e del reale, all’alterazione, al dinamico e sintetico.
Purtroppo quasi tutte le testimonianze filmiche sono andate perdute, ma è per noi importante rivendicare la fantastica carica avanguardistica italiana, fatta di talenti eclettici espressi spesso in maniera confusa, eccentrica, ma non priva di geniale follia sperimentatrice, ed ingiustamente sconosciuta a noi connazionali.
Parlando di avanguardia europea si è soliti citare Bunuel, Man Ray, Duchamp, figure indiscutibilmente prestigiose, ma il nostro panorama nazionale non ha davvero nulla da invidiargli.
Basta imbattersi nella pellicola del genio Anton Giulio Bragaglia, ‘Thais’, per veder sfoggiare un’esilarante demolizione di regole ed irriverenza alla formalità.
Aldilà della trama che narra di una seduttrice che si diletta a devastare i suoi amanti e consorti, fino alla definitiva distruzione ( probabilmente la protagonista incarna esattamente la figura ed il ruolo dell’artista futurista), ciò che ipnotizza è senz’altro la sua sceneggiatura.
Basata sulla dinamica opposizione di nero e bianco, affonda lo spettatore in un mondo alienante ed irreale.
Ribellione, coraggio,audacia, sono le virtù entusiastiche di un’opera che dovrebbe far riflettere sulla necessità ciclica ed oserei dire fisiologica di contrastare il conformismo le cui incrostazioni sono spesso malate.
Rossella Vaccaro