Bellocchio, il cinema che si offre all’imprevisto

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RENDE (CS) –   Maggio è per antonomasia il mese delle spose ma l’Università della Calabria ha scelto proprio il mese della zagara per festeggiare una nascita, quella del nuovo Dipartimento di Studi Umanistici ospitando uno dei protagonisti più importanti del panorama cinematografico italiano, il regista e sceneggiatore Marco Bellocchio.

Ieri pomeriggio l’University Club si è popolato di numerosi studenti e docenti i quali con entusiasmo hanno preso parte all’incontro-dialogo “Il cinema oltre se stesso”.

Ad aprire l’incontro è stato il direttore del Dipartimento di Studi Umanistici Raffaele Perrelli motivando la presenza di Bellocchio non solo in quanto straordinario cineasta ma come punto di partenza per dare vita a un dialogo intrecciato tra le diverse discipline che costituiscono il dipartimento quali il cinema, la filosofia e la psicoanalisi.

Sono le parole del direttore della Scuola Dottorale Internazionale di Studi Umanistici Roberto De Gaetano a condurre verso la discussione vera e propria partendo proprio dal tema che dà il titolo all’incontro, il cinema che fuoriesce da se stesso, andando oltre e che in questo movimento rientra in modo ancora più prepotente in sé, il destino della soggettività moderna che Bellocchio riesce a raccontare come pochi, i poteri di disciplina che formano e deformano il soggetto e che è solo dopo un percorso di assoggettamento dal quale deve necessariamente emanciparsi.

Bellocchio ascolta attento e si complimenta per le acute intuizioni dei professori e confessando di non essere un gran parlatore prega perché gli vengano poste delle domande. Il dibattito si accende con le curiosità-riflessioni di Felice Cimatti, Bruno Roberti, Daniele Dottorini e alcuni dei suoi capolavori vengono analiticamente decodificati, “Buongiorno, notte”, dice il regista, è stato un film commissionato ma sapeva fin dall’inizio che non sarebbe riuscito a raccontare fedelmente la storia di Aldo Moro, la tragica storia della sconfitta o della vittoria di un’insana follia ed ecco la scelta di un finale inaspettato, bellissimo che è diventato il presupposto necessario per portare se stesso nel film.

Cosa analoga succede con “Bella addormentata” in cui il caso di Eluana Englaro c’è ma resta quasi sullo sfondo e al centro ci sono i molti personaggi che sono totalmente immaginari.

La discussione poi si sposta sul momento della scrittura, quando la storia comincia ad avere linee più definite e il regista spiega che quando si scende in campo sul set, tutto quello che si è scritto viene messo nuovamente in discussione perché nell’incontro-scontro con il caso, con i particolari non previsti si capisce che non era abbastanza e allora c’è sempre qualcosa in più che va ad arricchire la storia, che la rende finalmente completa.

L’incontro con il fortuito diventa, secondo Bellocchio, quel qualcosa che potrebbe capovolgere gli equilibri stabiliti, attorno al quale potrebbe costruirsi di nuovo tutto, il reale che si incontra per caso, sguardi, respiri, gesti, da qui la necessità di rimanere ben saldi dentro la storia aspettando quell’unico imprevisto che potrebbe mettere in moto tutta una vita.

Sul finale Marco Bellocchio dice di essersi rifugiato dietro la macchina da presa dopo una breve esperienza da attore durata circa un anno ma fallita per via della sua voce e alla domanda di una studentessa sul consiglio da dare ai giovani che vogliono diventare dei registi risponde, “io lo sconsiglio sempre, è un lavoro complicato e ingrato ma metto alla prova la loro resistenza e alla decima volta che me lo chiedono allora rispondo”.

Gaia Santolla

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