RENDE-Francesco Saponaro, regista napoletano reduce dal successo della prima di “Calderon” andato in scena ieri sera presso il Teatro Auditorium dell’Unical, ci accoglie per rilasciare una intervista esclusiva in cui parla della sua formazione artistica e del suo “Calderon”.
D-È curioso che lei non si sia formato a Napoli, sua città natale, ma abbia scelto l’Accademia di arte drammatica di Palmi
R-In realtà il primo contatto col teatro è avvenuto a Napoli ma ero molto giovane e avevo iniziato in una scuola- laboratorio napoletano quando avevo sedici anni insieme ad un altro collega, Francesco Maria Cordella che tra l’altro è tra i protagonisti di questo spettacolo, e poi successivamente all’età di venti anni ho sentito il bisogno di andare via dalla mia città e di frequentare un’accademia che mi formasse anche con un metodo e un sistema più europeo. In quegli anni l’Accademia di arte drammatica della Calabria era diretta da Alvaro Piccardi , era una scuola all’avanguardia dove insegnavano docenti provenienti da tutto il mondo . Noi abbiamo fatto un corso da dove sono venuti fuori attori come Fortunato Cerlino, Peppino Mazzotta, Vito Facciolla, Massimo Zordani, insomma attori e artisti che lavorano anche con un discreto successo. L’esperienza è stata fondamentale perché avevamo la possibilità di viaggiare, seguire seminari internazionali, fare residenze formative per esempio all’accademia di arte drammatica di Varsavia oppure al festival internazionale di Amsterdam in cui abbiamo incontrato straordinari docenti di teatro, è stato un momento importante agli inizi degli anni Novanta , la Calabria è stata un momento di gestazione formativa per me e per molti dei miei colleghi.Ritornare in Calabria, lavorare in maniera continuativa con l’Università della Calabria significa un po’ ritornare alla mia origine formativa, un po’ alla mia terra madre.
D-Perché ha scelto di mettere in scena “Calderon” e perché proprio in questo momento ?
R-Non per vezzo però a volte capita che sia un autore a sceglierti e tu devi metterti a disposizione. Ci sono una serie di circostanze non solo celebrative ma nate anche da un accompagnamento che da anni Pasolini fa all’interno del lavoro di Teatri Uniti, del mio personale lavoro di indagine e investigazione creativa, al lavoro fatto all’interno della compagnia Rosso Tiziano e , pur non mettendo direttamente in scena Pier Paolo Pasolini trovava in Pasolini una guida, un riferimento, una sollecitazione costante. Dopo Eduardo, il ponte naturale attraverso la lettura e la messa in scena in voce di “Porno Teo Kolossal” questa sceneggiatura scritta da Pier Paolo Pasolini immaginata per Eduardo De Filippo. Dopo l’allestimento di “Dolore sotto chiave” proprio qui in Calabria ci sembrava interessante collegare tra il trentennale della scomparsa di Eduardo e il quarantennale di quella di Pasolini, al di là di questo momento celebrativo, di ricongiungere questo dialogo tra Eduardo e Pasolini e quindi passare da Eduardo ad un testo fondamentale, il primo testo teatrale pubblicato in vita di Pier Paolo Pasolini, “Calderon”, una sorta di contenitore espressivo di tutte le sollecitazioni poetiche, liriche, culturali che l’autore affronta con questo testo.
D- Quanto c’è di Pasolini in questo “Calderon” e quanto, invece, è suo?
R-Io credo che uno spettacolo teatrale sia un dialogo intercessorio tra quello che senti come sensibilità tua personale rispetto all’autore ma quello che io faccio come regista è quello di mettermi prima di tutto al servizio di una storia e di un autore. Di Paolini c’è tutto quello che ci deve essere da un punto di vista letterario, di nostro, più che di mio c’è lo sguardo e l’accoglienza a tutte le sollecitazioni che lui ci propone. Penso che in fondo lo spettacolo teatrale quando riesce bene non sia più né dell’autore né del regista che lo fa ma dello spettatore che lo riceve e semmai dell’attore che lo interpreta.
D- La presenza esclusivamente visiva dei reali spagnoli è un rimando al cinema oppure è da considerarsi sul versante psicoanalitico lacaniano come presenza dell’Altro?
R-Forse entrambe le cose o meglio il dispositivo cinematografico ci consente la forma visiva, dell’audiovisivo cinematografico ci consente di raccontare questi due emblemi, questi due simboli come espressione del potere, dell’alterità del potere coercitivo in un gioco di forme e di linguaggi espressivi articolati in maniera sapiente insieme poi all’utilizzo strategico della musica o di tecniche espressive affidate ad una straordinaria Anna Bonaiuto che ancora ringrazio per la capacità e la possibilità che ci ha dato e mi ha dato di poter entrare in dialogo con una delle più importanti attrici che in questo momento abbiamo in Italia.
D- Prima al Teatro Auditorium dell’Unical e poi al Piccolo di Milano.partenza da un teatro relativamente recente e approdo ad un teatro storico: come mai questa inversione di rotta?
R-Non è una inversione di rotta. Non amo le categorie chiuse e penso che se Milano è vicino all’Europa anche Cosenza parla europeo. Qui c’è un tessuto sociale, didattico e antropologico interessantissimo, ci sono tanti studenti dell’Erasmus, io sento che è un posto che non è viziato, soggiogato da certi vizi della provincia ma ha delle qualità e una dimensione molto interessante che ci mette in connessione con delle modalità che sono più europee.Forse in una metropoli o in vera e propria città questo processo laboratoriale di residenza non si sarebbe potuto attivare e qui ad Arcavacata è invece possibile.
Rita Pellicori