Martedì 17 alle ore 21 a Rovito, Ugo G. Caruso propone Miles electric: a different Kind o Blue di Murray Lerner , un’opera del 2004 a metà tra il documentario e il film-concerto che racconta la lunga e travagliata fase in cui sul finire degli anni sessanta Davis reinventò ancora una volta il jazz cambiando la storia della musica. La svolta elettrica che gli valse il ripudio di parte importante della critica, venne al termine di una lunga sperimentazione compiuta insieme ad un gruppo di musicisti straordinari che egli scelse come compagni d’avventura e che culminò con la straordinaria performance del 29 agosto 1970 di fronte alla sterminata platea di seicentomila giovani radunatisi all’Isola di Wight, a sud della costa inglese, esperienza fin lì assolutamente inedita per qualunque jazzista (ad eccezione forse di certe esperienze di Charles Lloyd da lui infatti invidiate) e nel concepimento in quello stesso anno di un doppio album rivoluzionario, Bitches brew, che avrebbe segnato non solo una rottura con quello che fino ad allora era stato il jazz ma un cambio di direzione verso nuove sonorità e per taluni versi, l’incontro con il rock con il soul e il funky. Ugo G. Caruso, all’epoca giovanissimo appassionato di rock cui da poco si era dischiuso il mondo in cui risplendevano Jimi Hendrix, The Doors, Pink Floyd, King Crimson, Traffic, Crosby Stills Nash e Young, Grateful Dead e Jefferson Aiplane, ricorda l’eco progagatasi sulle riviste musicali italiane del raduno di Wight e soprattutto il precoce incontro con quell’oggetto misterioso che fu per tutti “Bitches Brew”, tanto più per un ragazzo di quattordici anni quale era. A conversarne insieme a lui ci sarà Michele Cozza della Libreria Ubik di Cosenza, già tra gli ideatori del Festival delle Invasioni e collaboratore di varie riviste specializzate. Il film di Murray Lerner documenta quello straordinario periodo di inquietudini artistiche e di sperimentazioni estreme di cui la migliore testimonianza restano i 38 minuti furenti di musica che costituiscono quell’indimenticabile performance prodotta a Wight da Davis e dalla sua band e riproposta integralmente nel film. Al termine, il pubblico, massimamente costituito da giovani appassionati di rock, ancora frastornato, perplesso ma incantato, si chiese a cosa avesse assistito e domandò il titolo dell’unico, interminabile brano appena ascoltato. Davis allora rispose: “chiamatelo come volete!”. Il film racconta tante cose: ildifficile rapporto di Davis con la Columbia del suo omonimo neopresidente Clive Davis , la sua sfida ad un certo rock-jazz bianco come quello dei Blood Sweat and Tears, il sodalizio con il produttore Teo Macero, l’incontro con Betty Mabry cui, pare, debba la scoperta di Otis Redding, James Brown, Jimi Hendrix, Sly & The Family Stone, l’intenso scambio con musicisti come Gil Evans, Joe Zawinul , Cannonball Adderly e Wayne Shorter, la ricerca della libertà creativa assoluta perseguita attraverso una strada diversa da quelle battute a suo tempo da John Coltrane come pure dall’esperienza free di Ornette Coleman, la costruzione di un percorso originale, duro, incerto, ostico, per molti aspetti ispirato da un’ermetica simbologia africana e da saperi esoterici. Il risultato è quello di una musica totalmente nuova e indefinibile che pur conservando echi di tante esperienze passate lascia esterrefatto chi l’ascolta, compreso i consueti ammiratori di Miles, talvolta estaticamente ammaliati, talaltre urticati e sgomenti. Dopo le esperienze preparatorie di album come Filles of Kilimanjaro o In a silent way è Bitches Brew l’opera della grande svolta in cui confluisce non solo l’esperienza davisiana ma anche quelle di altri filoni musicali esterni al jazz, gli stessi in cui era stata tentata una fusione tra blues, funky e psichedelia. Bitches brew è l’album della rottura totale, della scomunica da parte della critica più purista, come quella rappresentata nel film da Stanley Crouch, che farà sentire i suoi effetti per anni, fino al tardivo riconoscimento come capolavoro epocale al pari dell’altra opera fondamentale, quel Kind of Blue che dieci anni prima aveva dischiuso al jazz la strada del modale o Birth of cool che aveva segnato la nuova rotta ancora dieci anni prima,nel 1949. Davis nel 1970 diventerà lo “sciamano elettrico” confermandosi come genio musicale capace di essere protagonista di tutti i capitoli della modernità, costantemente davanti a chiunque – critica, pubblico, musicisti – eppure tanto debitore del talento altrui, innovatore e conservatore, blues e free, acustico ed elettrico, capace di conquistare alla propria causa artisti di prima grandezza con le sue illuminazioni, così come di turbarli o di schiacciarli sotto il peso delle sue nevrosi e delle sue contraddizioni. Nel film di Lerner questo rapporto fecondo ma difficile è ricostruito attraverso le significative testimonianze dei suoi compagni di palco all’Isola di Wight, ovvero Gary Bartz, Chick Corea, Keith Jarrett, Dave Holland, Jack DeJohnette, Airto Moreira, nonchè da quanti gli furono vicini in quegli anni per ragioni personali come Carlos Santana e Joni Mitchell o professionali come Paul Buckmaster oppure come certi collaboratori storici tra cui spiccano Herbie Hancock e Dave Liebman che a distanza di oltre dieci anni dalla morte di Davis nella prefazione ad un’importante monografia di Gianfranco Salvatore, uno dei suoi esegeti italiani più pentetranti, lo accomuna ad altri geni crudeli del Novecento musicale, come Igor Strawinsky o Charles Mingus, o anche, come intuì Duke Ellington, a Pablo Picasso, “puer aeternus”, sempre fresco e vitale, capace di rinnovarsi e stupire fino alla fine dei suoi giorni”. Eppure, avverte sempre Liebman, bisogna interpretare Davis anche sotto il profilo dell’irrazionalità, del dominio dell’intuizione pura, dell’ambizione di conciliare mondi ritenuti incompatibili, tenendo conto di una personalità unica e consapevole della propria diversità esplicitata esotericamente attraverso il suo fortissimo carisma. Davis era un uomo tormentato da cronici malanni fisici e oppresso da disturbi psichici, perennemente in bilico tra l’infanzia e il declino, la vita e la morte, che si esprimeva con la voce dell’ agonia e il suono della tromba suonata da un bambino, costantemente inseguito dai propri fantasmi e in continuo dialogo con gli spiriti. Il fascino indiscusso del film di Lerner sta nel ritratto che affiora di questa singolare figura artistica colta nel momento di maggiore intensità creativa della sua vita sullo sfondo di un’epoca assurda e meravigliosa perchè percorsa da un irripetibile vortice di trasformazioni.