La Legge Pica e la sua approvazione

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L’approvazione della Legge Pica il 1° agosto del 1863 da parte del parlamento italiano (venne promulgata il 15 agosto), fu una delle prime misure repressive che la «liberale Italia» avrebbe attuato di fronte ad acute crisi politiche e sociali che con diversa intensità minacciarono l’integrità nazionale e l’autorità dello Stato. Promulgata per una durata di cinque mesi, venne a più riprese prorogata fino al 31 dicembre 1865. Una misura repressiva volta al mantenimento dell’ordine pubblico, a fronteggiare le proteste delle masse popolari e l’aumento del fenomeno del brigantaggio. Nel Mezzogiorno al disordine politico, dovuto allo sgretolamento dell’amministrazione borbonica, era seguito infatti quello sociale, dentro il quale si sprigionavano energie morali e culturali con aspettative, interessi e aspirazioni spesso diverse e contrastanti.

Le motivazioni più eminenti del disordine sociale nei primi anni dell’Unità erano legati alla questione agraria, al fiscalismo, all’arbitraria applicazione della giustizia, all’invadenza della modernizzazione da parte dello Stato e non per ultimo al dilagare dell’ignoranza. Tutte queste componenti finirono per costruire nelle masse e nell’immaginario anche letterario la figura del «brigante sociale», difensore e protettore dei poveri contro lo Stato oppressore; questa era una delle immagini che costituivano un fenomeno molto complesso come il brigantaggio.

L’impossibilità di arginare il fenomeno del brigantaggio con i mezzi ordinari della magistratura portò, nell’estate del 1863, la maggioranza parlamentare di destra ad approvare la legge n. 1409. A proporla era stato il deputato aquilano Giuseppe Pica (1813-1887), da cui la legge prese poi il nome. Una legge approvata con un colpo di mano da parte della maggioranza parlamentare e subito tacciata di incostituzionalità, ma che avrebbe lasciato un segno molto profondo nella storia dello Stato liberale e nei territori in cui essa venne attuata per la durezza dei suoi metodi.

Gli articoli della Legge Pica prevedevano oltre alla messa in stato di assedio di tutte le province meridionali (ne furono escluse solo le province di Napoli, Teramo e Reggio Calabria), il passaggio di tutti i poteri civili ai tribunali militari, la sospensione delle libertà costituzionali, la deportazione e il domicilio coatto per briganti e manutengoli.

Queste misure repressive lasciarono un segno duraturo che andò ben oltre l’emergenza del fenomeno del brigantaggio e il periodo liberale. Il regime fascista, nella costruzione dello stato totalitario, si rifece alla legislazione eccezionale del domicilio coatto del 1863 nell’istituzione del confino di polizia il 6 novembre 1926 per combattere gli oppositori e ogni forma di dissenso.
Negli intenti la Legge Pica avrebbe dovuto arginare gli «spontaneismi» delle autorità locali, supplire alle inefficienze dei giudici meridionali, spesso troppo legati al contesto politico locale, ma anche gli eccessi che si erano verificati nel biennio 1861-1862 nella lotta contro il brigantaggio, con picchi di arresti ed esecuzioni in molti casi senza prove.
Per la provincia cosentina gli studi di Francesco Gaudioso hanno ricostruito quantitativamente la portata del fenomeno del brigantaggio. Nel 1861 i morti in combattimento furono 25, i fucilati 22, gli arrestati 204, i presentatisi 61. Il 1862 segnò una decisa inflazione delle cifre con 36 morti in combattimento, 56 fucilati, 350 arrestati, 46 presentatisi. Dopo la promulgazione della Legge Pica si cominciò ad avere una contrazione degli arrestati, dei fucilati e degli uccisi in combattimento, ma non una soluzione del fenomeno. Il clima di terrore che le autorità militari avevano instaurato portò certamente molti briganti a limitare le proprie azioni, ma il fenomeno si ripresentava in determinati periodi ancora più virulento del biennio 1861-1862.

Molti esponenti del parlamento italiano avevano espresso la loro delusione nei confronti della giurisdizione militare per la «severità estrema delle pene erogate». I risultati della Legge Pica non furono abbastanza per colmare gli enormi abusi commessi, anche se «picchiando nel mucchio» si era riusciti a distruggere equilibri e alleanze politico-sociali che fomentavano il brigantaggio, fattore che la troppo inefficiente magistratura ordinaria meridionale non era riuscita a risolvere.
Il rafforzamento dell’unità nazionale, visto dai governi di destra storica principalmente come mantenimento dell’ordine pubblico, costò molto agli italiani nel primo decennio unitario sia in termini di vite umane, che di privazioni delle libertà individuali, e non per ultimo di mancate riforme socio-economiche che unite a quelle della giustizia avrebbero limitato tali problemi. In talune circostanze la promulgazione di leggi eccezionali nel periodo liberale finì per creare in anni più tardi pericolosi precedenti che causarono all’Italia altre ferite e altre vittime.

Giuseppe Ferraro

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