Still Life, la vita rivendicata

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Ci si aspettava qualcosa la sera del sette novembre al teatro Morelli, e si è stati ripagati con un lavoro che è stato spettacolo nell’etimo più puro del termine. “Still Life”, di Ricci/Forte, è una palingenesi di energia che si rinnova dal primo minuto all’ultimo. Una narrazione che non conosce climax ma che folgora sin da principio lo spettatore con momenti miliari, esplosioni, probabili finali. Ed è proprio dalla fine, dalle “fini”, che lo spettacolo prende le mosse: si parla di suicidi commessi da omosessuali, i cui nomi campeggiano costanti sui pannelli alle spalle dei protagonisti, accompagnati dal gesto che li inspessisce, gli da dimensione. E per far si che tutta si compia, a sostenere gli attori verrà chiamato sin da principio il pubblico: i cinque protagonisti salgono sul palco attraversando rumorosamente le file, ed è da quel momento che la quarta parete di diderottiana memoria va ad infrangersi in modo ineluttabile e bellissimo. In ordine sparso: un turbine di piume travolge il buio della sala e le teste di chi siede tra il pubblico, gli attori corrono tra le file a baciare in bocca gli attoniti/divertiti/rigidi astanti, poco dopo lanciano acqua dal palco in un momento di gioia bestiale. Ed il nitore di questo coinvolgimento risulta forte, elettrizzante, leale verso l’intenzione di svincolare da un piano troppo teorico idee di inaccettabile violenza e d’inconfutabile normalità. Si riscopre il gusto di toccare con gli occhi, di sentire e non d’interpretare, di ingoiare senza bypassare. Si gode a guardare corpi energici che si donano nello sforzo alacre di richiamare la vita là dove è stata recisa. Vita di cui traboccano i cinque ottimi interpreti ( Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Liliana Laera, Francesco Scolletta), “usati” per riproporre tutti i sentimenti che ruotano attorno al concetto di omosessualità e suicidio: paura, sopruso, cordoglio, sessualità ferina, genitorialità, un certo tipo di ironia. Gli unici momenti che indeboliscono il percorso sono quelli in cui si addentra in una postulazione di “si” e “no” in merito al crescere un figlio, regole che ammiccano a certe dicotomie banali e di cui non si sarebbe sentita la mancanza. Per il resto il tempo corre veloce, tra incalzante reparto visivo e momenti più centrati sul testo (splendido il monologo sui continenti), e questo turgido, poderoso spettacolo pop arriva infine ad equalizzare tutto il caleidoscopio di tipi e sentimenti sondati fino a quel momento,unendoli sotto il comune denominatore di “persona” . La lavagna, fino a poco prima occupata dal tentativo vano di speculare matematicamente sulla natura delle cose umane, diventa vettore massimo di un pubblico a cui è affidato l’atto finale: la gente si alza, sale sul palco e scrive i nomi di chi ha amato e che ora non è più. I morti vengono richiamati con ordinata dolcezza, ed è paradossalmente quello il momento in cui la Vita arriva, come un demiurgo, come un sorriso placido, a chiudere il sipario.

Salvatore Perri

Fotografie: Giovanni Barberio

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