Consigliati da Otto@Tales: ALL’IDROGENO di Buzzati

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Questa volta proponiamo un famoso racconto di Buzzati. All’idrogeno concentra in sé lecaratteristiche di tutta la raccolta di cui fa parte, Sessanta racconti: l’ansia del presagio, il contesto borghese, l’inevitabilità del fato. Senza anticipare nulla, raccomandiamo di leggere questo testo tutto d’un fiato,magari di sera.  E, se abitate in un condominio, tenete vicino il telefono.

 
Fui svegliato dal telefono. Fosse per l’interruzione brusca del sonno, o per il silenzio plumbeo che regnava intorno, mi sembrò che il campanello avesse un suono più lungo del solito, malaugurante, astioso.
Accesi la luce, in pigiama andai a rispondere, faceva freddo, vidi che i mobili erano immersi profondamente nella notte (quel senso misterioso pieno di presagi!), svegliandomi li avevo colti di sorpresa. Insomma capii subito che era una delle grandi notti, le quali vengono di raro, profondissime, e in queste notti all’insaputa del mondo il destino fa un passo.
“Pronto, pronto ” c’era una voce nota, dall’altra parte, ma cosi insonnolito io non la riconoscevo. ” Sei tu?… E allora… dimmi… Vorrei sapere… ”
Era un amico, certo, però ancora non l’avevo identificato (quella odiosa mania di non dire subito il proprio nome). Lo interruppi, senza aver neppure pesato le sue parole: ” Ma non potevi telefonarmi domani? Lo sai che ora è? ” ” Sono le 57 e un quarto ” rispose. E tacque lungamente come se avesse già detto troppo. In realtà mai io mi ero addentrato, da sveglio, in profondità cosi remote della notte; e provavo un certo orgasmo.
“Ma cosa c’è? Cos’è successo?” ” Niente, niente ” rispose lui, sembrava imbarazzato ” … si era sentito dire che… Ma non importa, non importa… Scusa… ”
E mise giù la cornetta. Perché aveva telefonato a quell’ora? E poi, chi era? Un amico, un conoscente, certo, ma chi precisamente? Non riuscivo a localizzarlo.
Stavo per rientrare in letto, il telefono suonò per la seconda volta. Era un trillo ancora più aspro e perentorio. Un altro, non quello di prima, lo intuii subito.
” Pronto. ” ” Sei tu?… Ah, meno male. ” Era una donna. E stavolta la riconobbi: Luisa, una brava ragazza, segretaria di un avvocato, che non vedevo più da anni. L’aver udito la mia voce era stato per lei, si capiva, un sollievo immenso. Ma perché? E, soprattutto, come mai si faceva viva dopo tanto tempo al colmo della notte, con una chiamata cosi nevrastenica? ” Ma cosa c’è ” feci, impazientito ” si può sapere? ”
” Oh ” rispose Luisa fievole. ” sia ringraziato Dio!… Avevo fatto un sogno, sai?, un sogno orrendo… Mi ero svegliata col batticuore… Non ho potuto fare a meno di… ”
” Ma cosa? Sei la seconda, questa notte. Cosa c’è perdio? ”
” Perdonami, perdonami… Lo sai come io sono apprensiva… Va a dormire, va., non voglio farti prendere altro freddo… ciao. ” La comunicazione fu interrotta.
Restai là, col microfono in mano, nel silenzio, e i mobili, benché la luce elettrica li illuminasse nel modo più normale, avevano un aspetto strano, come chi sta per dire una cosa ma si interrompe, e dentro a lui la cosa rimane chiusa, senza che noi si possa sapere. Probabilmente era questa una semplice conseguenza della notte: noi ne conosciamo in realtà una parte minima, il rimanente e immenso, inesplorato, e le rarissime volte che vi entriamo, tutto ci impaurisce.
Pace e silenzio, tuttavia, questo sì: era il sonno quasi sepolcrale delle case il quale e molto più profondo, e muto, che il silenzio della campagna. Ma quei due perché mi avevano telefonato? Qualche notizia che riguardava me era giunta fino a loro? Una notizia di disgrazia? Presentimenti, forse, sogni premonitori?
Sciocchezze. Mi infilai nel letto, ritrovando con gioia il posto caldo. Spensi la luce. Mi distesi a pancia in giù, nella mia solita maniera.
A questo punto suonò il campanello della porta. Lungo. Due volte. Il rumore mi entrò proprio nella schiena, su per la colonna vertebrale. Qualcosa era dunque successo, o stava per succedermi, e doveva essere un fatto infausto per compiersi a un’ora così estrema, un fatto doloroso o turpe, senza dubbio.
Il cuore mi rimbombava dentro. Riaccesi la luce della stanza, ma per prudenza non accesi in corridoio: chissà, da qualche minima fessura della porta d’ingresso potevano vedermi: ” Chi è? ” domandai cercando una intonazione energica; la voce invece tremò, afona, ridicola.
” Chi è? ” chiamai una seconda volta. Nessuno rispondeva.
Con precauzione infinita, sempre al buio, mi avvicinai alla porta e, chinandomi, misi un occhio a un buchino quasi impercettibile da cui però si poteva guardar fuori. Il pianerottolo era vuoto, né si intravedevano ombre in movimento. C’era, sulle scale, la fioca, avara, disperata luce di sempre, per cui gli uomini, rincasando alla sera, sentono il peso della vita.
” Chi è? ” domandai per la terza volta. Niente.
Allora si udì un rumore. Non veniva di là dalla porta, dal pianerottolo delle scale o dalle prossime rampe, bensì dal basso, probabilmente dalla cantina, e l’intero edificio ne vibrava. Era come se una cosa pesantissima fosse strascinata, per un passaggio angusto, con stento e travaglio grandi. Il rumore significava appunto un attrito, e c’era dentro pure – misericordia di Dio! un lungo atrocissimo scricchiolio come quando una trave sta per crepare o la tenaglia procede a scardinare un dente.
Non potevo capire che fosse, seppi però immediatamente che quella era la cosa per cui poco prima mi avevano telefonato ed era suonato il campanello della porta: in una tale oscura e misteriosa cavità della notte!
Il rumore si ripeteva, a lunghi strappi dilaceranti, sempre più forte, come se salisse. Nello stesso tempo avvertii un fitto ma estremamente basso brusio umano, che veniva dalle scale. Non potevo resistere. Piano piano feci scorrere il chiavistello e socchiusi il battente. Guardai fuori.
La scala (ne vedevo due rampe) era gremita. In vestaglie e pigiama, qualcuno anche a piedi nudi, gli inquilini erano usciti e appoggiati alla ringhiera guardavano giù con ansia. Notai il pallore mortale delle facce, l’immobilita delle membra, che sembravano paralizzate dal terrore.
” Pss, pss ” feci, dallo spiraglio, non osando uscire in pigiama, com’ero. La signora Arunda, quella del quinto piano (aveva in testa ancora i diavoletti) volse il capo con espressione di rimprovero. ” Cosa c’è?” sussurrai (ma perché non parlavo a voce alta se tutti erano svegli?).
” Sss ” fece lei, sottovoce, e aveva un tono di totale desolazione, immaginate un malato a cui il medico abbia fatto diagnosi di cancro. ” L’atomica! ” e fece un segno con l’indice verso il pianterreno.
” Come, l’atomica? ”
“È arrivata… stanno portandola dentro… Per noi, per noi… Venga qui a vedere. ” Benché mi vergognassi, uscii sul pianerottolo e facendomi largo fra due tipi che non avevo mai visto, guardai in giù. Mi parve di scorgere una cosa nera, come un cassone immenso intorno al quale con leve e corde armeggiavano alcuni uomini in tuta blu.
“È quella? ” domandai. ” Già, dove vuole che sia? ” rispose un tanghero vicino a me e poi, quasi per rimediare alla scortesia: ” È la drogena, sa? “.
Si udì un risolino secco, privo di allegria. ” Che drogena d’Egitto! All’idrogeno, all’idrogeno. Porci maledetti, l’ultimo tipo! Tra miliardi di uomini che esistono, proprio a noi ce l’hanno mandata, proprio a noi, via San Guliano 8! “
Passato il primo gelido sbalordimento, il brusio della gente si faceva intanto più mosso e nutrito, Distinguevo voci, repressi singhiozzi di donne, bestemmie, sospiri. Un uomo sui trent’anni piangeva senza ritegno battendo con forza il piede destro su un gradino. ” È ingiusto ” gemeva. ” Io mi trovo qui per caso!… Io sono di passaggio!… Io non c’entro!… Domani io dovevo partire!… ”
Quella sua lagna era insopportabile. ” E io domani ” gli disse, rude, un signore sui cinquanta, credo fosse l’avvocato dell’ottavo piano ” e io domani dovevo mangiare gli agnolotti, ha capito? Gli agnolotti! E ne farò senza, ne farò! ”
Una donna aveva perso la testa. Mi afferrò per un polso e lo scuoteva. ” Li guardi, li guardi ” disse a voce bassa accennando ai due bambini che la seguivano ” li guardi questi due angioletti! Le sembra possibile? Non grida vendetta a Dio, tutta questa storia? ” Io non sapevo cosa dire. Avevo freddo.
Dal basso venne un fragore lugubre. Dovevano essere riusciti a smuovere il cassone di un buon tratto. Guardai ancora in giù. L’odioso oggetto era entrato nell’alone di una lampadina. Era verniciato di azzurro scuro e c’era una quantità di scritte e di etichette. Per vedere meglio, gli uomini si spenzolavano dalla ringhiera, col rischio di precipitare, Voci confuse: ” E scoppierà quando? Questa notte?… Mariooo! Mariooo!! L’hai svegliato Mario?… Gisa, hai tu la boule con l’acqua calda?… Figli, figli miei!… Ma tu gli hai telefonato? Sì, ti dico, telefona! Vedrai che lui può far qualcosa… e assurdo, caro signore, solo noi… E chi le dice solo noi? Come fa a sapere?… Beppe, Beppe, stringimi, ti supplico, stringimi!… “. Poi preghiere, ave, litanie. Una donnetta teneva in mano un cero spento.
Ma a un tratto dal basso una notizia serpeggio lungo la scala. Lo si capi dal concitato scambio di voci che via via salivano. Una notizia buona, si doveva dedurre dal più vivace tono che assunse subito l’aspetto della gente. ” Che cosa c’è? Che cosa c’è? ” chiedevano, impazienti dall’alto.
Finalmente, a frammenti, qualche eco giunse fino a noi del sesto piano. ” C’è un indirizzo con il nome ” dicevano. ” Come, il nome? Sì, il nome di chi deve ricevere l’atomica… è personale, capisci? Non è per tutta la casa, non è per tutta la casa, solo per uno… non è per tutta la casa! ” Sembravano impazziti, ridevano, si abbracciavano e baciavano.
Poi un dubbio, a gelare l’entusiasmo. Ciascuno penso a sé, dialoghi affannosi, le scale erano tutte un frenetico vocio. ” Che nome è? Non sono riusciti a leggerlo… Sì, che si legge… e un nome straniero (tutti pensammo al dottor Stratz, il dentista del piano rialzato). No, no… è italiano… Come? come? Comincia per T… No no… per B come Bergamo… E poi? e poi? La seconda lettera? U, hai detto? U come Udine? ”
La gente mi fissava. Mai vidi volti umani stravolti da una felicità così selvaggia. Uno non seppe resistere e scoppiò in una risata che finì in una tosse cavernosa: era il vecchio Mercalli, quello dei tappeti all’asta. Capii. Il cassone con l’inferno dentro era per me, un esclusivo dono; per me solo. E gli altri erano salvi.
Che c’era più da fare? Mi ritrassi verso l’uscio. I coinquilini mi guardavano. Con che gioia mi guardavano. Giù in basso, i rantoli tetri del cassone, che adagio adagio stavano issando su per la scala, si mescolarono a una improvvisa fisarmonica. Era il motivo de La vie en rose.

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