Consigliati da Otto@Tales: SOFFIO di Pirandello

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Otto@Tales non è solo pubblicazione dei vostri racconti, ma anche discussione e proposta di pezzi di grandi autori.
Oggi vi consigliamo la lettura di questa nota novella di Pirandello, “Soffio”, edita nel 1931. Senza anticipare troppo a chi non l’ha ancora letto, in questo testo si ravvisano alcuni caratteri tipici della letteratura pirandelliana, quali una certa vena umoristica (il saggio sull’umorismo era stato pubblicato nel 1908) e un’esaltazione del panismo.
E’ interessante notare come i temi principali del racconto si ritrovino, con opportune rivisitazioni, in tanti titoli della cultura popolare odierna – e non soltanto in letteratura: “l’uno contro tutti”, il disagio sociale, ma anche – spoiler, se non avete ancora letto il racconto fermatevi qui! – il concetto dell’uomo-epidemia, che si trova ad esempio nella serie videoludica di Prototype.
Ma adesso, basta chiacchiere. Prossimamente pubblicheremo un racconto di Italo Svevo che affronta le stesse tematiche, e proporremo un confronto tra i due testi. Nel frattempo, buona lettura. 

I

         Certe notizie sopravvengono così inattese che si resta lì per lì sbalorditi, e dallo sbalordimento pare non si trovi piú modo a uscire se non ricorrendo a una delle frasi piú fruste o delle considerazioni piú ovvie.
Per esempio, quando il giovane Calvetti, segretario del mio amico Bernabò, m’annunziò la morte improvvisa del padre del Massari, da cui poco prima Bernabò e io eravamo stati a colazione, mi venne d’esclamare: «Ah la vita cos’è! Basta un soffio a portarsela via»; e congiunsi il pollice e l’indice d’una mano per soffiarci su, come a far volare una piuma che tenessi tra quelle due dita.
Vidi, a quel soffio, il giovane Calvetti farsi brusco in volto, poi piegare il busto e portarsi una mano al petto, come quando s’avverte dentro, e non si sa dove, un malessere indefinito; ma non ne feci caso, parendomi assurdo ammettere che quel malessere potesse dipendere dalla stupida frase che avevo detta e dal ridicolo gesto con cui, non contento d’averla detta, avevo anche voluto accompagnarla; pensai a qualche fitta o puntura ch’egli avesse avvertito, forse al fegato o al rene o agl’intestini, momentanea a ogni modo e senz’alcuna gravità. Senonché: prima di sera, mi piombò in casa costernatissimo Bernabò:
– Sai che m’è morto Calvetti?
– Morto?
– All’improvviso, nel pomeriggio.
– Ma se nel pomeriggio era qua da me! Aspetta, che ora poteva essere? Saranno state le tre.
– E alle tre e mezzo è morto!
– Mezz’ora dopo?
– Mezz’ora dopo. –
Lo guardai male, come se con quella conferma intendesse stabilire una relazione (ma quale?) tra la visita a me e la morte repentina del povero giovine. Ebbi come un impeto dentro, che mi forzò a respingere subito quella relazione, foss’anche fortuita, come un sospetto di rimorso che me ne potessi fare; e a trovare a quella morte una ragione estranea alla visita; e dissi al Bernabò dell’avvertimento improvviso del malessere che il giovine aveva avuto mentr’era ancora con me.
– Ah sì? Un malessere?
– La vita cos’è! Basta un soffio a portarsela via. –
Ecco, ripetevo meccanicamente la frase perché, sotto sotto, il pollice e l’indice della mia mano destra s’eran toccati da sé, e da sé ora la mano, senza parere, mi si levava fino all’altezza delle labbra. Giuro che non fu tanto con la coscienza di darmi una riprova quanto piuttosto di fare a me stesso uno scherzo che solo così di nascosto, per non parer ridicolo, potevo fare: trovandomi quelle due dita davanti alla bocca, ci soffiai su, appena appena.
Bernabò era alterato in volto per la morte di quel suo giovane segretario a cui era molto affezionato; e tante volte, dopo aver corso o soltanto affrettato un po’ il passo, corpulento, sanguigno e quasi senza collo, m’era venuto avanti ansimando e s’era anche portata la mano al petto per calmare il cuore e riprender fiato ora, vedendogli fare quello stesso gesto e udendogli dire che si sentiva soffocare e occupar la mente e la vista come da una strana tenebra, che cosa, in nome di Dio, dovevo credere?
Sull’istante, pur tutto smarrito e stravolto com’ero, mi gettai a soccorrere il povero amico piombato riverso e boccheggiante su una poltrona. Ma mi vidi respinto furiosamente; e allora finii per non comprendere proprio piú nulla; mi sentii come gelare in una attonita apatia, e stetti a vederlo sussultare su quella poltrona di velluto rosso, che mi parve tutta di sangue, sussultare non piú come un uomo ma come una bestia ferita, e smaniare il respiro, e diventare sempre piú pavonazzo, quasi nero. Faceva leva con un piede sul tappeto, forse per rizzarsi da sé, ma si sfiniva in quello sforzo; come nell’incubo di un sogno, vedevo il tappeto scivolargli sotto, arricciandosi. Sull’altra gamba, storta sul bracciuolo della poltrona, il calzone tirato gli aveva scoperto la giarrettiera di seta, d’un color verdolino a righino rosa. Domando un po’ di considerazione per la mia carità: tutta la mia inquietudine era come schiantata e sparsa qua e là, tanto che poteva come niente dimenticarsi, a un volger d’occhi, o nel fastidio che avevo sempre avuto dei miei brutti quadri appesi alle pareti, o anche nella curiosità che mi tratteneva lo sguardo, ecco, sul colore e le righino di quella giarrettiera. Tutt’a un tratto però mi ripresi, inorridito di essermi potuto in tal momento alienare fino a tanto, e urlai al mio cameriere che volasse a fermare davanti alla porta una vettura, e poi su ad ajutarmi a trasportare l’agonizzante a un ospedale o a casa.
Preferii a casa, perché piú vicino. Non abitava solo; aveva con sé una sorella, maggiore di lui, non so se vedova o vecchia zitella, insoffribile per la puntigliosa meticolosità con cui lo governava. Allibita, la poverina, con le mani nei capelli: «Oh Dio, che è stato? com’è stato?», e non voleva levarcisi dai piedi, che rabbia! per sapere da me che era stato, com’era stato, proprio da me e proprio in quel momento che non ne potevo piú, con tutte le scale che avevo fatte, salendo all’indietro, col peso enorme sulle braccia di quel corpo abbandonato. «Il letto! il letto!». Pareva non lo sapesse piú nemmeno lei, dove fosse il letto, a cui mi sembrò non s’arrivasse mai. Depostolo rantolante (ma rantolavo anch’io) mi buttai con le spalle, rifinito, a ridosso a una parete, e se non erano pronti a raccogliermi su una seggiola, cadevo giú tutto in un fascio sul pavimento. Col capo ciondolante, potei dire tuttavia al cameriere: «Un medico! un medico!»; ma mi ricaddero le braccia al pensiero che ora restavo solo con la sorella, che certo m’avrebbe aggredito con altre domande. Mi salvò il silenzio che d’improvviso si fece sul letto, cessato il rantolo. Parve, per un attimo, silenzio di tutto il mondo, per il povero Bernabò rimasto lì sordo e inerte su quel letto. Subito si levarono le disperazioni della sorella. Ero annichilito. Come immaginare, non dico credere, che una tale enormità fosse possibile? Le mie idee non potevano piú pigliar sesto. E in quello sconvolgimento mi pareva tanto curioso che quella poverina, suo fratello Giulio, come lo aveva sempre chiamato, ora ch’era lì morto, corpulenza immobile che non consentiva diminutivi, lo chiamasse proprio Giulietto! Giulietto! A un certo punto, scattai in piedi, esterrefatto. Il cadavere, come si fosse avuto a male di quel Giulietto! Giulietto! aveva risposto con un orribile brontolio dello stomaco. Toccò a me questa volta parar la sorella, che sarebbe cascata indietro a terra, svenuta dal terrore; mi svenne invece tra le braccia; e allora, tra lei svenuta e quel morto sul letto, senza piú saper che fare né che pensare, mi sentii preso in un vortice di pazzia e cominciai a scrollare quella poverina, perché la finisse con quello svenimento ch’era proprio di piú. Senonché, rinvenuta, non volle piú credere che il fratello fosse morto. «Ha sentito? Non dov’esser morto! Non può essere morto!» Bisognò venisse il medico ad accertarlo e ad assicurarla che quel brontolio non era stato nulla, un po’ di vento o non so che altro, che quasi tutti i morti sogliono fare. Allora lei, ch’era linda e ci teneva, fece un viso angustiato e si parò gli occhi con la mano, come se il medico le avesse detto che anche lei da morta lo avrebbe fatto.
Era quel medico uno di quei giovani calvi che portano quasi con dispettosa fierezza la loro precoce calvizie tra la violenza d’una selva di riccioli neri che, non si sa perché scomparsi dal sommo del capo, gremiscono poi tutt’intorno la testa. Con gli occhi di smalto armati da forti lenti da miope, alto, piuttosto grasso ma vigoroso, due cespuglietti di peli mozzati sotto il naso piccolo, le labbra tumide, accese e così ben segnate da parer dipinte, guardava con tal derisoria commiserazione l’ignoranza di quella povera sorella e parlava della morte con così disinvolta familiarità, quasi che avendo da fare di continuo con essa nessuno dei suoi casi gli potesse esser dubbio od oscuro, che alla fine un ghigno di scherno mi proruppe dalla gola irresistibilmente. Già mentre parlava, m’ero scorto per caso allo specchio dell’armadio e m’ero sorpreso con uno sguardo storto e freddo che subito m’era rientrato negli occhi strisciando come una serpe. E il pollice e l’indice della mia destra si premevano, si premevano così fortemente l’un contro l’altro, ch’eran come insorditi dallo spasimo della reciproca pressione. Appena egli a quel mio ghigno si voltò, gli mossi incontro, a petto, e, con la bocca atteggiata ancora di scherno nel pallore che mi aveva inteschiato il volto, gli sibilai: «Guardi», e gli mostrai le dita, «così! Lei che la sa così lunga sulla vita e la morte: ci soffi su, e veda se le riesce di farmi morire!». Si tirò indietro per squadrarmi, se non aveva da far con un pazzo. Ma io gli andai a petto di nuovo: «Basta un soffio, creda! basta un soffio!». Lasciai lui e afferrai per un polso la sorella. «Lo faccia lei! Ecco, così!», e le portai la mano alla bocca, «congiunga due dita e ci soffi su!». La poverina, con gli occhi sbarrati, atterrita tremava tutta: mentre il medico, senza piú pensare che lì sul letto c’era un morto, sghignazzava, divertito. «Non lo faccio piú io, su voi, perché già lì ce n’è uno, e due con Calvetti per oggi! Ma bisogna che me ne scappi, me ne scappi subito, me ne scappi!»
E me ne scappai, davvero come un pazzo. Appena sulla via, la pazzia si scatenò. S’era già fatto sera, e la via era affollatissima. Sobbalzavano dall’ombra tutte le case ai lumi che s’accendevano, la gente correva per ripararsi la faccia dai guizzi di luce di tanti colori che l’assaltavano da ogni parte, fanali, riverberi di vetrine, insegne luminose, in un subbuglio assillato da oscuri sospetti. Benché no: ecco là, al contrario, una faccia di donna che s’allargava di contentezza al riflesso d’una luce rossa; e là quella d’un bimbo che rideva, tenuto alto sulle braccia da un vecchio, davanti allo specchio d’uno sporto di bottega che ruscellava d’un getto continuo di gocce smeraldine. Fendevo la calca e con le due dita davanti alla bocca soffiavo, soffiavo su tutte quelle facce sfuggenti, senza scelta e senza voltarmi indietro ad accertarmi se davvero quei miei soffi producevano l’effetto già due volte sperimentato. Se lo producevano, chi avrebbe potuto attribuirlo a me? Non ero padrone di tenere quelle due dita davanti alla bocca e di soffiarci su per un mio innocente piacere? Chi poteva credere sul serio che un potere così inaudito e terribile mi fosse venuto in quelle due dita e nel soffio che emettevo appena su esse? Era ridicolo ammetterlo e poteva passare soltanto come uno scherzo puerile. Io scherzavo, ecco. E mi s’era già insugherita in bocca la lingua a furia di soffiare, e non avevo quasi piú fiato tra le labbra appuntite, arrivato in fondo alla via. Se ciò che avevo sperimentato due volte era vero, eh perdio, dovevo avere ucciso, così scherzando scherzando, piú d’un migliajo di persone. Non era possibile che il giorno dopo non si venisse a sapere, con terrore di tutta la città, di quella mortalità improvvisa e misteriosa.
Si venne difatti a sapere. Tutti i giornali, la mattina dopo, ne furono pieni. La città si svegliò sotto l’incubo tremendo d’una epidemia senza scampo scoppiata fulmineamente. Novecento sedici morti in una sola notte. Nel cimitero non si sapeva come riparare a seppellirli; non si sapeva come riparare a portarli via tutti dalle case. Sintomi comuni accertati dai medici in tutti i colpiti, dapprima l’avvertimento d’un malessere indefinito, poi la soffocazione. Dall’autopsia dei cadaveri, nessun indizio del male che aveva cagionato la morte quasi istantanea.
Restai, leggendo quei giornali, in preda a uno sgomento ch’era come lo sconcerto d’una orribile ubriachezza, confusione d’aspetti indistinti che s’avventavano, si sbattevano aggirati nel volume d’una nuvola che m’avvolgeva vorticosa; e un’ansia inesplicabile, un fremito pungente che urtava, urgeva contro qualcosa dentro che mi restava nero e immobile e a cui la mia coscienza, attratta ma tutta irta e in procinto di sbandarsi da ogni parte, si rifiutava d’accostarsi, toccava e subito se ne distaccava. Non so propriamente che cosa volessi esprimere, strizzandomi con una mano convulsa la fronte e ripetendo: «È un’impressione! è un’impressione!». Fatto si è che la parola, pur così vuota, m’ajutò a squarciare d’un lampo quella nuvola, e mi sentii per un momento sollevato, liberato. «Dev’esser tutta pazzia», pensai, «che m’è entrata nel capo per essermi trovato jeri a far quel gesto ridicolo e puerile prima che la calamità si dichiarasse di quest’epidemia piombata così di colpo sulla città. Sogliono spesso nascere da siffatte coincidenze le piú sciocche superstizioni e le fissazioni piú incredibili. Del resto, per liberarmene non ho che da aspettar qualche giorno senza piú ripetere lo scherzo di questo gesto. Se è epidemia, come certo dov’essere questa spaventosa mortalità deve seguitare e non cessar così di colpo come è cominciata.»
Bene; aspettai tre giorni, cinque giorni, una settimana, due settimane: nessun nuovo caso fu segnalato dai giornali: l’epidemia era di colpo cessata.
Eh, ma pazzo no, domando scusa, nella ossessione di un simile dubbio, ch’io potessi esser pazzo, non potevo restare; pazzo, d’una pazzia che, a dichiararla, avrebbe fatto scoppiare chiunque dalle risa, no, via. Da una tale ossessione bisognava pur che mi levassi al piú presto. E come? Rimettendomi a soffiar sulle dita? Si trattava di vite umane. Bisognava che fossi anche convinto che il mio atto era per se stesso innocente, da bambino, e che se gli altri ne morivano, non era colpa mia. Avrei sempre potuto credere a una ripresa della epidemia, dopo quella pausa di quindici giorni, poiché fino all’ultimo dovevo ritenere incredibile che la morte potesse dipendere da me. Ma intanto la tentazione diabolica d’acquistare una simile certezza, ben piú terribile del dubbio che potessi esser pazzo, la certezza di sapermi dotato d’un così inaudito potere: come resistere a una tale tentazione?

II

         Dovevo concedermi di fare ancora una prova, ma timida e cautelosa; una prova quanto piú fosse possibile «giusta». La morte, si sa, non è giusta. Quella che dipendeva da me (se dipendeva da me) doveva esser giusta.
Conoscevo una cara bambina che, mentre giocava con le sue bambole, uscendo da un sogno per entrare in un altro, tutti diversi l’uno dall’altro, questo che la portava a un villaggio sul monte e quello che la portava a una spiaggia di mare, e poi dal mare a un paese lontano lontano, dov’era altra gente che parlava una lingua tutt’altra dalla sua, alla fine da tutti quei sogni s’era svegliata ancora bambina a vent’anni, ma proprio bambina bambina, con uno accanto che, appena uscito dall’ultimo di quei sogni, si era subito trasformato nella realtà di un omaccio straniero, in uno stangone alto due metri, stupido, infingardo e vizioso; e tra le braccia, invece della bambola, s’era trovato un povero esserino, che non si poteva dire un mostriciattolo perché aveva pure un visino d’angelo malato, quando la continua convulsione, a cui tutto il corpicciuolo era in preda, non gli deformava anche quello, orribilmente. «Morbo di…», non so, il nome di un medico straniero, inglese o americano, Pot mi pare seppur si scrive così (cara gloria, dare a un morbo il proprio nome!), «morbo di Pot» in una delle sue forme piú gravi e senza rimedio. Quel bimbo non avrebbe mai parlato, mai camminato, né mai si sarebbe servito di quelle sue manine scarnite e scontorte dalla violenza degli spasimi atroci. Avrebbe potuto tirare così ancora per anni. Ne aveva tre? Forse fino a dieci. Eppure, non pareva vero, tra le braccia di qualcuno che avesse imparato a reggerlo bene come quello stangone del padre, appena poteva, in qualche momento di tregua, il povero bimbo sorrideva d’un sorriso così beato in quel suo visino d’angelo, che subito, cessato l’orrore per quei contorcimenti, la più tenera compassione faceva sgorgare le lagrime dagli occhi di quanti stavano a guardarlo. Pareva impossibile che solo i medici non capissero che cosa chiedeva il bimbo con quel sorriso. Ma forse lo capivano, perché avevano già dichiarato che certamente era uno del casi davanti a cui non ci sarebbe stato da esitare, se la legge lo avesse permesso e ci fosse stato il consenso dei parenti. La legge è legge, perché crudele può essere, come spesso è, ma pietosa no, se non a costo di finire d’esser legge.
Io dunque mi presentai a quella madre.
La stanza dov’ella m’accolse era invasa dall’ombra e si vedevano come lontane le due finestre velate sul livido barlume dell’ultimo crepuscolo. Seduta sulla poltrona a piè del lettino, la madre reggeva tra le braccia il bimbo convulso. Io mi chinai su lui, senza dir nulla, con le dita davanti alla bocca. Il bimbo, al mio soffio, sorrise e spirò. Come la madre, abituata alla continua tensione spasmodica e guizzante di quel corpicciuolo, se lo sentì quasi sciolto d’improvviso tra le braccia e molle, rattenne un grido, alzò il capo a guardarmi, guardò il bimbo:
– Oh Dio, che gli hai fatto?
– Niente, hai visto, appena un soffio
– Ma è morto!
– Ora è beato. –
Glielo levai dalle braccia e lo deposi così tutto sciolto e molle sul lettino, col suo sorriso d’angelo ancora sulla boccuccia pallida.
– Tuo marito dov’è? Di là? Ti libero anche di lui. Non ha piú ragione d’opprimerti. Ma poi tu resta sempre a sognare, bambina. Vedi che si guadagna a uscire dai sogni? –
Non ci fu bisogno che andassi in cerca del marito. Si presentò, come un gigante sbalordito, sulla soglia. Ma nell’esaltazione che mi dava la terribile certezza ormai acquisita, io mi sentivo già smisuratamente cresciuto, molto piú alto di lui. «La vita che cos’è! Guarda, basta un soffio, così, a portarsela via!». E, soffiatogli sul viso, uscii da quella casa, ingigantito nella sera.
Ero io, ero io; la morte ero io; la avevo lì, nelle due dita e nel fiato; potevo far morire tutti. Per esser giusto verso quelli che avevo fatto morire prima, non dovevo ora far morire tutti? Non ci voleva nulla, purché mi fosse bastato il fiato. Non l’avrei fatto per odio di nessuno; non conoscevo nessuno. Come la morte. Un soffio, e via. Quanta umanità, prima di questa che ora mi passava ombra davanti, era stata soffiata via? Ma potevo mai tutta l’umanità? disabitare tutte le case? tutte le strade di tutte le Città? e le campagne e i monti e i mari? disabitare tutta la terra? Non era possibile. E allora no, non dovevo piú nessuno, piú nessuno. Dovevo forse mozzarmi quelle due dita. Ma chi sa se non sarebbe bastato il solo fiato. Dovevo provare? No, no: basta! Mi sentivo raccapricciare, al solo pensiero, da capo a piedi. Forse bastava il soffio soltanto. Come impedirmelo? Come vincere la tentazione? Una mano sulla bocca? Potevo condannarmi a star sempre con una mano sulla bocca?
Così farneticando, m’avvenne di passare davanti al portone dell’ospedale, spalancato. Nell’androne, erano alcuni infermieri, lì di guardia per il pronto soccorso, che conversavano con due questurini e col vecchio portinajo; e sulla soglia, intento a guardar nella strada, sta va col lungo camice di servizio e le mani sui fianchi quel giovane medico accorso al letto di morte del povero Bernabò. Come mi vide passare, forse per i gesti che facevo in quel mio farneticare, mi riconobbe e si mise a ridere. Non l’avesse mai fatto! Mi fermai; gli gridai: «Non mi cimenti in questo momento col suo sciocco sorriso! Sono io, sono io; l’ho qua», e gli mostrai di nuovo le dita congiunte, «forse nel soffio soltanto! Ne vuoi fare la prova davanti a questi signori?». Sorpresi e incuriositi, gl’infermieri, i due questurini e il vecchio portinajo s’erano appressati. Col sorriso rassegnato sulle labbra che parevano dipinte e senza levarsi le mani dai fianchi, quello sciagurato non si contentò di pensarlo, questa volta, osò dirmi, scrollando le spalle: «Ma lei è pazzo!». «Sono pazzo?» incalzai. «L’epidemia è cessata da quindici giorni. Vuoi vedere che la riattizzo e la faccio divampare in un momento, spaventosamente?». «Soffiandosi sulle dita?». Le risa fragorose che seguirono a questa domanda del dottore mi fecero vacillare. Avvertii che non avrei dovuto lasciarmi prendere dalla irritazione per l’avvilimento del ridicolo che quel mio gesto, appena fatto palese, inevitabilmente m’attirava. Nessuno, fuor che io, poteva credere sul serio ai suoi terribili effetti. Ma l’irritazione tuttavia mi vinse, come il bruciore d’un bottone di fuoco sulla carne viva, sentendo quel ridicolo quasi un marchio di scherno che la morte avesse voluto imprimermi concedendomi quell’incredibile potere. S’aggiunse a questo, come una sferzata, la domanda del giovane medico: «Chi le ha detto che l’epidemia è cessata?». Restai. Non era cessata? Mi sentii avvampare di vergogna le guance. «I giornali» dissi «non han piú segnalato alcun caso». «I giornali», ribatté quello, «ma non noi, qua all’ospedale.. «Ancora casi». «Tre o quattro al giorno». «E lei è sicuro che siano dello stesso male?». «Ma sì, caro signore, sicurissimo. Così si riuscisse a veder chiaro nel male! Risparmi, risparmi il suo fiato». Gli altri tornarono a ridere. «Sta bene», dissi allora. «Se è così, io sono un pazzo e lei non avrà paura a offrirmene una prova. S’assume la responsabilità anche per questi altri cinque signori?». Il giovane medico, di fronte alla mia sfida, restò un momento perplesso; ma poi il sorriso gli ritornò sulle labbra: si volse a quei cinque: «Avete inteso? il signore presume che gli basta soffiarsi appena sulle dita per farci morire tutti quanti. Ci state? Io ci sto». Quelli esclamarono a coro, sghignazzando: «Ma sì, soffi, soffi, ci stiamo anche noi, eccoci qua!». E mi si misero tutt’e sei in fila davanti, coi volti protesi. Pareva una scena di teatro in quell’androne d’ospedale, sotto la lanterna rossa dei pronto soccorso. Erano certi d’aver da fare con un pazzo. Ormai non potevo piú tirarmi indietro. «È l’epidemia, caso mai, non sono io, eh?». E per esser piú sicuro, congiunsi come al solito le due dita davanti alla bocca. Al soffio, tutt’e sei, uno dopo l’altro, s’alterarono in viso; tutt’e sei si piegarono sul busto; tutt’e sei si portarono una mano al petto, guardandosi l’un l’altro negli occhi infoscati. Poi uno dei questurini mi saltò addosso, attanagliandomi il polso; ma subito si sentì soffocare, mancar le gambe, mi cadde ai piedi come a implorarmi ajuto. Gli altri, chi vagellava, chi annaspava con le braccia, chi era restato con gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Istintivamente, col braccio libero feci per parare il giovane medico che s’abbatteva su me; ma anche lui, come già Bernabò, mi respinse furiosamente, e traboccò a terra con un gran tonfo. Una frotta di gente, che a mano a mano diventava folla, s’era intanto raccolta davanti al portone. I curiosi, di fuori, spingevano, mentre gli sgomenti rinculavano dalla soglia e pigiavano in mezzo agli ansiosi che volevano vedere che cosa stesse accadendo in quell’androne. Lo domandavano a me, come a uno che lo dovesse sapere, forse perché il mio volto non esprimeva né la curiosità, né l’ansia, né lo sgomento che erano in loro. Che aspetto avessi, non potrei dirlo; mi sentivo in quel momento come uno sperduto, d’improvviso assaltato da una muta di cani. Non vedevo altro scampo che nel mio gesto puerile. Dovevo aver negli occhi una espressione di paura e insieme di pietà per quei sei caduti e per tutti coloro che mi stavano intorno; fors’anche sorridevo dicendo a questo e a quello nel farmi largo: «Basta un soffio… così… così»; mentre da terra il giovane medico, testardo sino alla fine, gridava contorcendosi: «L’epidemia! L’epidemia!». Fu una fuga generale; e io mi vidi ancora per poco in mezzo a tutta quella gente che correva spaventata e all’impazzata, andare, io solo, a passo, ma come un ubriaco che parlasse tra sé, dolce e appenato; finché mi trovai, non so come, innanzi a uno specchio di bottega, sempre con quelle due dita davanti alla bocca e nell’atto di soffiare «…così… così…», forse per dare una prova dell’innocenza di quell’atto, mostrando che, ecco, lo facevo anche su di me, nel solo modo che mi fosse possibile. M’intravidi per un attimo appena in quello specchio, con occhi che io stesso non sapevo piú come guardarmeli, così cavati dentro Com’erano nella faccia da morto; poi, come se il vuoto mi avesse inghiottito, o colto una vertigine, non mi vidi piú; toccai lo specchio, era lì, davanti a me, lo vedevo e io non c’ero; mi toccai, la testa, il busto, le braccia; mi sentivo sotto le mani il corpo, ma non me lo vedevo piú e neanche le mani con cui me lo toccavo; eppure non ero cieco; vedevo tutto, la strada, la gente, le case, lo specchio; ecco, lo ritoccavo, m’appressavo a cercarmi in esso; non c’ero, non c’era nemmeno la mano che pur sentiva sotto le dita il freddo della lastra; un impeto mi prese, frenetico, di cacciarmi in quello specchio in cerca della mia immagine soffiata via, sparita; e mentre stavo così contro la lastra, uno, uscendo dalla bottega, m’investì e subito lo vidi balzare indietro inorridito e con la bocca aperta a un grido da pazzo che non gli usciva dalla gola: s’era imbattuto in qualcuno che doveva esser lì, e non c’era, non c’era nessuno: insorse in me allora prepotente il bisogno d’affermare che c’ero; parlai come nell’aria; gli soffiai nel volto: «L’epidemia!» e con una manata in petto lo abbattei. Intanto la via, messa in subbuglio da coloro che prima erano fuggiti e che ora, con visi da spiritati, tornavano indietro, certo concitando tutti in cerca di me, s’empiva di gente che da ogni parte rampollava, strabocchevole, come un fumo denso di facce cangianti che mi soffocava, vaporandosi quasi nel delirio d’un sogno spaventoso; ma pur pigiato tra quella calca, potevo andare, aprirmi un solco col soffio sulle mie dita invisibili. «L’epidemia! l’epidemia». Non ero piú io; ora finalmente lo capivo: ero l’epidemia, e tutte larve, ecco, tutte larve le vite umane che un soffio portava via. Quanto durò quell’incubo? Tutta la notte e parte del giorno appresso stentai a uscire da quella calca, e liberato alla fine anche dallo stretto delle case della città orrenda, mi sentii nell’aria della campagna aria anch’io. Tutto era dorato dal sole; non avevo corpo, non avevo ombra; il verde era così fresco e nuovo che pareva spuntato or ora dal mio estremo bisogno d’un refrigerio, ed era così mio, che mi sentivo toccare in ogni filo d’erba mosso dall’urto d’un insetto che veniva a posarsi; mi provavo a volare col volo quasi di carta, distaccato, di due farfalle bianche in amore; e come se veramente ora fosse uno scherzo, ecco, un soffio e via, e le ali distaccate di quelle farfalle cadevano lievi nell’aria come pezzi di carta; piú là, su un sedile guardato da oleandri, sedeva una giovinetta vestita d’un abito di velo celeste, con un gran cappello di paglia guarnito di roselline; batteva le ciglia; pensava, sorridendo d’un sorriso che me la rendeva lontana come un’immagine della mia giovinezza; forse non era altro veramente che una immagine rimasta lì della vita, sola ormai sulla terra. Un soffio e via! Intenerito fino all’angoscia da tanta dolcezza, rimanevo lì invisibile, con le mani afferrate e trattenendo il respiro, a mirarla da lontano; e il mio sguardo era l’aria stessa che la carezzava senza che lei se ne sentisse toccare.

 

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