CRITICANDO: Tra Svevo e Pirandello, esercizi di onnipotenza

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Sempre tenendo presente che hanno valenza relativa i paragoni tra testi che si trovano in diversi stati di compiutezza, si può dire che la somiglianza del dono soprannaturale e assassino che caratterizza i due protagonisti è, comunque, interessante.
La prima affinità nei due racconti è proprio la scoperta, da parte dei personaggi, della capacità di uccidere in maniera semplice, invisibile e per di più totalmente irrazionale (perciò non “scopribile”); si potrebbe supporre che l’elemento sovrannaturale inserito in un contesto prettamente borghese (come si trova, simile ma non identico, nei due testi) sia di per sé un fattore significativo, specie per autori come Svevo e Pirandello, ben abituati a smontare le meccanico delle relazioni Io-Società.
Una seconda affinità è la consapevolezza della suddetta capacità, che già differenzia i testi perché affrontata dai protagonisti in maniera diversa – seppure collegata, vedremo, alla terza affinità. In Soffio il personaggio può e vuole verificare di non essere pazzo, e di essere effettivamente diventato potentissimo; ne Il malocchio Vincenzo rimanda la presa di coscienza, e i tentativi di verifica della sua abilità cominciano solo dopo la morte della madre. C’è un approccio diverso alla natura del dono, in un caso verificata immediatamente, in un altro ponderata e, tutto sommato, maggiormente temuta. Contando che i due testi si risolvono in archi temporali ben diversi, e che in Pirandello la coscienza della potenza si svela in modo repentino (epifanico?) mentre in Svevo è necessario più tempo, si potrebbe anche sottolineare una maggiore capacità di adattamento del protagonista pirandelliano, opposta ad una sostanziale inettitudine – e quando mai, direbbe qualcuno – del Vincenzo sveviano, che avrebbe finalmente un mezzo per affermarsi come tanto crede di desiderare ma su cui non ha effettivo controllo.
Il terzo punto è infatti il controllo del dono, che se in Soffio è perfetto, per Vincenzo è sostanzialmente impossibile; più volte si dice che il malocchio non sottostà all’arbitrio del protagonista e che è piuttosto legato alle pulsioni del suo animo. È forse questo il punto cruciale della differenziazione. Il soffio mortale induce il protagonista a rifiutare la propria stessa persona e a identificarsi con il sospiro, il fiato che è la morte; «la morte ero io», «ero l’epidemia, e tutte le larve, ecco, tutte le larve, le vite umane che un soffio portava via». In linea con la crisi dell’Io propria della poetica pirandelliana, la nuova qualità del personaggio lo estrania totalmente (già in distacco con la società: «Non l’avrei fatto per odio di nessuno non conoscevo nesso. Come la morte»,) spersonalizzandolo e, alla fine, allontanandolo del tutto dal limite umano per sprofondarle in un delicato e assoluto panismo. L’uomo diventa epidemia, e incontra la sua vera natura – essere morbo, una qualità autentica forse non solo per il solo individuo, ma per tutto il genere umano.
Il dono di Vincenzo, invece, scatta involontariamente (ma, a un certo punto, non inconsapevolmente dato che egli sente letteralmente qualcosa muoversi nel suo occhio e sa riconoscere quando sta per partire il “colpo”) a partire da motivazioni che sono sì reali, ma su cui non ha potere né propriamente coscienza – e  cioè l’orgoglio e l’odio profondo verso chi è in grado di realizzarsi, di imporsi, di affermarsi in quella maniera che vorrebbe fosse anche sua e che invece non è. Il fastidio verso l’attività (gli aeronauti sul dirigibile) e l’orrore di vedersi attaccato nell’intimo (come fa la madre deridendolo per il suo desiderio di assomigliare a Napoleone), si condensano in colpi che il suoi inconscio proietta come reazione all’esterno. L’inadeguatezza dell’inetto reagisce, ma senza consapevolezza, ancora una volta senza merito diretto del protagonista.
Ribadendo che un confronto tra un testo compiuto e uno incompleto può essere fuorviante, ci asteniamo dall’esprimere giudizi qualitativi più diretti. Senz’altro i due racconti sono rappresentativi delle rispettive tendenze degli autori e si inquadrano bene nei loro schemi tematici, nonostante l’argomento apparentemente “strano”. Ennesima dimostrazione delle capacità del fantastico, mai realmente svincolato dal contesto culturale e sociale e, in fin dei conti, occasione per “mettere alla prova” la potenza di idee e valori.

Francesco Corigliano

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