Peter Pan

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“C’era una volta, tantissimo tempo fa …” tutte le favole più belle iniziano proprio così, e se la mia non è stata proprio una favola io mi ci sono ritrovata. Chi ha detto poi che le favole sono solo per bambini? Spesso queste oltre a farci sognare, servono anche a farci crescere, a volte sono un po’ più tristi delle solite favole lette nei libri, ma ognuna di esse ci fa sognare, sperare, ma soprattutto capire che, se lo vogliamo, ogni vita è una favola … e ora correndo sul sentiero antico della memoria vi racconterò la mia.

La luna cresce e, da sottile, dolce scudo argenteo, illumina il gentile silenzio della notte. I vivaci colori del giorno sono stati inghiottiti dalla notte, usurpatrice del suo tributo. Aurora è una meteora, una stella filante: è una bambina autistica che cammina mettendo un piede dietro l’altro dentro ogni piastrella colorata del pavimento. Non sente le mie parole: m’ignora … poi la notte si schiude per lasciar passare il sole. Aurora vola sopra un tappeto di nuvole bianche e grigie, mentre il vento la tiene su. Balla nell’aria, senza ricadere a terra; balla sopra le scorie del suo mondo ignorato, sopra alla tristezza appiccicata al suo cuore che un sorriso non riesce a dissimulare. Ha bisogno di essere aiutata per sempre, senza possibilità di crescere. È un Peter Pan involontaria, condannata a non uscire dall’infanzia, ad avere sempre bisogno dell’ “altro”, in questo mondo che è la sua isola: “L’isola che non c’è” ignorata o rimossa con la fantasia come un incubo o un dispiacere.

A distanza di anni ricordo ancora ogni particolare del giorno della sua nascita.

Quando l’ostetrica aveva messo la bambina tra le mie braccia, l’avevo guardata senza sapere cosa dire.  Per un attimo avevo provato imbarazzo perché avevo con me mia figlia che non conoscevo fisicamente.  Ascoltavo il suo pianto simile al canto degli angeli, perché apparteneva alla stessa natura divina e creava armonia dentro la stanza silenziosa dell’ospedale. Passai la notte abbracciata a lei, la guardavo, ridevo, piangevo, pregavo per lei e per noi …. Quel momento era l’alba di un nuovo giorno, di una nuova vita e di una nuova epoca. In quel momento cominciava la sua storia dentro la nostra per vivere oltre spazi infiniti nell’eterna alba del tempo.

Quella bambina era il mio Peter Pan.

Io ho sempre creduto che sull’autismo c’è speranza e c’è magia perché questi sono i bambini delle fate.  L’ho scoperto un giorno quando anche le mie parole non avevano più fiato, e allora a quel punto lasciai parlare le emozioni.

“Aurora vieni qua, non avere paura del mio abbraccio!” le sussurrai.

L’emozione più grande era stata quando la strinsi cullandola piano nella sua aureola profumata. Una fiamma di sole ci avvolse. Aliti a melodie di brezza ci accarezzavano la pelle. Strisce di luce si pretendevano come aquiloni al cielo. Era di una bellezza effimera come quella di una farfalla che si silenziava lieve nell’anonimo profumo di un crisantemo. Sentivo il suo tepore, la testolina sulla mia spalla e le braccia scheletriche sul mio collo.  Indossava un abito che le arrivava alle caviglie, forse era di quattro o cinque taglie più grandi della sua ma voleva mettere sempre e solo quello. Aveva il collo sottile e gracile come lo stelo di un fiore. Era avvolta in un vestito di fiammeggiante colore rosso, il capo nascosto dai capelli, lo sguardo basso, impaurito e sonnolento. Con le manine nervosamente intrecciate mi rivolgeva due occhi colmi di rassegnata malinconia. Gli occhi rivelano la qualità del cuore e quelli di Aurora erano davvero speciali: trasparenti, nitidi e semplici. Belli e profondi come potevano essere solo quelli di una bambina piccola ma umanamente grande. Era impossibile non rimanere toccata e imbarazzata dalla bellezza della sua fragilità, dalla sua impossibilità di capire e dalla sua sofferenza accettata senza ribellione.

Per incanto frammenti d’emozioni nascenti morivano di là della bellezza d’infiniti arcobaleni.  Aurora schiudeva così il bocciolo del suo autismo, in una lattea fioritura di parole, sotto una luce magica di tenui riflessi.

Ero nella sua isola incantata.  Lì non era importante se Aurora non rispondeva al suo nome, se preferiva giocare da sola o se a volte sembrava sorda. Tutto era normale. Ognuno camminava in punta di piedi, allineava le cose e fissava per ore un oggetto che non aveva niente di speciale. Non esisteva nessuna realtà. Questa era

“ l’isola che non c’è”.  Un universo d’incanto e di magia.

Urlavo e non capivo il perché.

Io donna perfetta, moglie ideale e madre premurosa mi decomponevo in mille sfaccettature. Avevo una forza che meravigliava mio marito. Ho cresciuto con amore Aurora e suo fratello, sopportando le difficoltà, portando carichi pesanti, tacendo quando avrei voluto gridare. Cantando quando avrei voluto piangere. Piangevo solo quando ero felice. Litigavo per ciò in cui credevo. Non accettavo un NO come semplice risposta quando credevo che esistesse una soluzione migliore. Ero forte, affabile, mite, sapiente … e possedevo un bacio che poteva curare qualsiasi cosa. Mi curavo da sola e riuscivo a conciliare tutti i tempi con una semplice magia.

“Quanto sei morbida e soffice!” mi diceva Aurora ma m’impegnavo per essere invece resistente e tenace. Io di solito badavo a lei, e ora era Aurora a tenermi forte la mano. Scoprire, sapere di questo nuova isola era come spogliarsi, svestirsi dai pregiudizi e rompere gli stereotipi.  Essere lì era come avere a disposizione una lente sempre più grande che ingrandisce un dettaglio, un punto dentro un dettaglio, e finalmente si ha la sensazione di arrivare al centro delle cose. Io ero arrivata al centro.
Ci sono stati giorni in cui speravo che Aurora non si svegliasse più, in cui pregavo Dio che se la portasse via un minuto prima di me, in cui pensavo di farla finita. Io non sono stata in grado di aiutarla.  Qualche volta sono stata persino di ostacolo. Non capisco perché le relazioni sono tutte così complicate: quelle che si hanno non si apprezzano, quelle che si vorrebbero ci spaventano e quelle che si dovrebbero avere non si capiscono.

Questo era il viaggio della “scoperta”. Una scoperta che è stata quasi come una trattativa serrata sul mio essere donna. La scoperta del perché ti accadono certe cose. Accadono punto e basta. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. La mia invece stava correndo via veloce come un fiume torbido e malato verso confini imprevedibili. Correva dentro un rituale pendolarismo quotidiano.  Poi smisi di desiderare un’altra vita e mi accorsi che tutto ciò che mi circondava era un invito a crescere. Vivevo con indolenza dentro queste acque che con vigore e senza argini travolgeva ciò che incontrava. Aurora mi ha portato sugli argini. Investita come un sasso nel mezzo di un torrente ero miope e non vedevo di là delle apparenze.  Ero sorda perché preferivo ascoltare le menzogne al silenzio di Aurora.  La fata della misericordia è riuscita a stabilire con me un’alleanza e donandomi un’arca come quella di Noè mi hanno portato alla salvezza, oltre gli spazi infiniti, nell’Eterna alba del tempo. Strappata dalla corrente che mi trascinava sono diventata una piccola ansa e ho ritrovato la mia isola, perché oggi ho capito che Aurora, è il faro del divenire nel fiume del mio andare.  Oggi so che questo è il mio essere donna.

Sara Francucci

 

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