Storia di un funambolo stabile

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Precarietà, fragilità. È la vita stessa, incerta, instabile. Non vi è alcuna legge, non vi è alcuna logica. Noi crediamo di camminare su forti e consolidate strade asfaltate, e invece…mille crepe, fratture, placche litosferiche in movimento che aprono vortici, essi ci risucchiano in un nulla perpetuo; la strada sotto i nostri piedi, che pare a noi così ampia, forse non è altro che una sottile fune oscillante nell’infinito spazio dell’aria. È la vita di Salvo Stabile, ma è la tua vita, la mia, di tutti noi.

Egli è un giovanotto disilluso, deluso. Ora Salvo è un “uomo senza inconscio”, ma un tempo non era così, un tempo sognava, desiderava, aspirava, viveva. La speranza, l’ottimismo sono svaniti ed egli riesce a guardare alla realtà soltanto con lo sguardo labile della nostalgia, con lo sguardo del viaggiatore prossimo al naufragio. Sognava con quella biro e un foglio di carta bianco, candido, puro eppure così irreale, illusorio. Quel foglio non gli avrebbe mai dato da vivere, ma scrivere lo rendeva libero; riempirlo, colmarlo di parole, di inchiostro, era come un rifugio, le dita s’appoggiavano a quella biro come fosse la tastiera di un pianoforte. Scrivere, una melodia.

Aveva studiato, s’era dannato, ma in concreto era riuscito a scrivere qualche storiella qui e lì, qualche esigua “cosuccia”. Quella biro non gli aveva concesso la vita tanto sognata, e neppure denaro per arrivare a domani. Un bel giorno la realtà gli sferrò un colpo troppo forte, una botta violenta che annullò in lui il sogno, la speranza, i desideri nascosti: la morte del padre.

Quel giorno fu una svolta, terribile. Salvo aveva sentito il peso del vuoto, del nulla, dietro le mille “pseudo – certezze” che la vita ci offre. Davanti all’apparente solidità del mondo, Salvo era ora solo, senza alcuna guida o supporto, non aveva didascalie o “istruzioni per l’uso della vita”, ma catapultato nel labirinto, in bilico tra vivere e guardarsi vivere. Quella biro la buttò via, lontano lontano; il foglio di carta ebbe simil sorte.

Decise di voler conseguire una laurea in Lettere poiché, in cuor suo, aveva sempre quel desiderio, in un misero cassettuccio della sua testa ripose il sogno di diventare scrittore, era sublime alle sue orecchie questa parola, aveva un suono infinito. Tuttavia doveva pur sempre pagarsi gli studi e aiutare la madre; almeno doveva provarci, a vivere. Così tra un impiego e l’altro, tra perpetue vicissitudini, la zia decise di prenderlo con sé.  Nemesi era una donna saggia, aveva vissuto una vita intera nel suo amato circo. Lì, tra i suoi funamboli e giocolieri, era una sorta di dea, una dea della giustizia, ma una “giustizia compensatrice”, distribuiva gioia al momento opportuno, era una via d’uscita, una possibilità per Salvo, di liberarsi dal suo torpore e dalla sua inerzia.

Un destino, un futuro che per Salvo era tutt’altro che stabile, e sempre meno lo sarebbe stato. S’immerse così nel mondo circense, in quei profumi e quegli odori che sembravano estraniarlo dal mondo reale. Non aveva una vita felice, non aveva una vita, forse. L’unica donna che aveva avuto con sé era sua madre, e ora la zia Nemesi, al suo fianco per indicargli un giusto equilibrio. L’equilibrio. Parola ignota a Salvo, la parola più dolce del mondo ad udirla, l’equilibrio come scopo di vita, come senso della vita stessa, forse meta irraggiungibile. Salvo scelse un’umile compagna di vita, con lei era difficile mantenersi in equilibrio, ma forse più facile che farlo con l’esistenza stessa, precaria e priva di un senso definito. La fune era la sua scelta. La fune non era né una bellissima donna, né un “posto fisso” di lavoro, e non era quella laurea in lettere (mai conseguita), ma era tutto ciò di cui aveva bisogno. Per una volta era a suo agio, era se stesso, era Salvo. Paradossalmente, su quella fune così sottile, così sul punto di cedere, era in equilibrio, in armonia, più di quanto lo fosse mai stato nella vita, su metri e metri di mattonelle e strade asfaltate. La Terra gli era sempre tremata sotto i piedi, come in un eterno terremoto, ma la fune no. Lei lo cullava, lo amava mentre deliziava la gente nei suoi spettacoli, con poche acrobazie e qualche sorriso. Talvolta cadeva, e si rialzava, cadeva, e si rialzava di nuovo. La fune l’aveva capito: era un amore, un amore precario. Come il resto, del resto. Era quello che un tempo era la biro, come il pianoforte per un pianista, la racchetta per un tennista, una semplice fune era la felicità dopo il dolore, era la fuga dal grigio quotidiano, era però un amore precario.

Federico Giovanni Rega 

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