Saracena: moscato passito sul podio dell’enologia italiana

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jhshiushqioSARACENA (CS) – Il moscato passito di Saracena è sul podio dell’enologia italiana. È un vino legato alla tradizione, che gelosamente ne custodisce la ricetta, in oltre cinque secoli di storia. Perchè prima di Saracena, almeno 4000 anni fa, c’era Sextio fondata dagli Enotri e solo in seguito conquistata dai Saraceni nel 900 d.C.: e non è un caso che la nascita del borgo moderno sia avvolta da un’aura di leggenda. Si parla perfino di una semplice manciata di esuli, scampati all’attacco dell’esercito imperiale di Costantinopoli, posti sotto la guida di una donna coperta solo da un lenzuolo, colei che procederà a fondare la città. Oggi vediamo un centro storico di matrice islamica, all’interno della kasbah con il “quartiere delle armi”, un mucchietto di case, sorrette da vutanti (archi), posate su di un suolo ricco di grotte, alcune delle quali accessibili dai bassi delle stesse abitazioni. Non vediamo più, invece, il castello a cavallo del fiume Garga e tutte quelle edificazioni di epoca medievale, di cui restano a testimoninza solo sparsi ruderi: lo Scarano, il Vaglio, San Pietro e Porta Nuova. Restano le chiese cristiane, prima fra tutte quella di San Leone, patrono della città, celebrato due volte all’anno, in rito sacro e profano, con quella processione, il pane benedetto e i fucarazzi (falò) che illuminano la strada fino al mattino. Tutto questo sullo sfondo di un’area montana nel Parco Nazionale del Pollino, dominata da boschi di faggi, pini neri e pini loricati, paesaggi dove è possibile incontrare gufi reali, aquile, lupi e caprioli. Ma quella di Saracena è anche una montagna intervallata da pianori, come Scifarello, Masistro, Novacco.

E proprio questo luogo tra storia e tradizione che nasce il moscato passito, prediletto dai papi già nel Cinquecento, una bevanda che impiega chicchi autoctoni di moscatello di Saracena, appassiti all’ombra, selezionati accuratamente e schiacciati da mani femminili, per andare poi ad arricchire di sfumature un mosto cotto di uve di Malvasia, Odoacra e Guarnaccia. Un nettare che può essere gustato da solo o per ingentilire formaggi stagionati e ancora per accompagnare i dolci tradizionali, zuccariddri, cuddrure e cannaricoli, con il moscato impiegato addirittura nella preparazione. Questa è l’antica tradizione culinaria tramandata di generazione in generazione: tra i piatti tipici le capiceddre (testine di agnello ripiene al forno), le vintrishche (ventresche di stoccafisso), le mazzacorde (involtini di interiora), firrizzuli (maccheroni lavorati al ferro), verdure insaporite con varietà locali di olio extravergine di oliva come la turchhjinedda. Una tavola tradizionale ma dinamica che rivive oggi attraverso i piatti del giovane chef Gennaro Di Pace.

 

 

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