Dopo il trauma da schiocco di “Avengers: Infinity War”, tornare al cinema per un cinecomic Marvel ha richiesto forza di volontà e un coraggio non indifferente, che solo i veri supereroi possono vantare.
Fortunatamente, ho abbastanza audacia per affrontare queste sfide e, purtroppo, una curiosità sproporzionata che presto mi farà finire come metà dell’universo: in polvere. Vi assicuro che vedere Ant-Man And The Wasp è un’esperienza piacevole e, usciti dalla sala, non sarete disperati.
Nessuna domanda vi frullerà in testa… beh, forse qualcuna sì.
LA TRAMA
Innanzitutto, in che tempo si colloca la storia diretta da Peyton Reed?
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il film è il tassello mancante tra i fatti di Capitan America: Civil War e quelli narrati nell’ultimo, epico cinecomic dei fratelli Russo.
Scopriamo, perciò, che dopo l’aiuto prestato a Steve Rogers, Scott Lang è finito agli arresti domiciliari per aver violato gli accordi di Sokovia. Da allora sono passati due anni e, colpevole di aver preso parte allo scontro nell’aeroporto di Lipsia, l’ex ingegnere elettronico non ha più avuto alcun contatto con Hank Pym e sua figlia Hope van Dyne, costretti alla fuga perché ricercati dall’FBI. Leitmotiv della pellicola, e questa è la grande differenza con gli altri film del MCU, è la famiglia.
Sì, avete capito bene!
Non ci sono Thanos a cui mirare alla testa o Ultron da distruggere. Scott Lang ha solo tre giorni di domiciliari da scontare prima di essere libero di trascorrere le giornate fuori casa con sua figlia Cassie ed è disposto a tutto pur di comportarsi da bravo recluso e non combinare pasticci. Ovviamente, nulla andrà secondo i piani. Come ricorderete dal primo capitolo, infatti, Scott Lang è stato protagonista di una toccata e fuga nel misterioso Regno Quantico e, nel corso di questo breve ed entusiastico soggiorno, ha stabilito una sorta di legame con Janet van Dyne, moglie di Hank e madre di Hope, dispersa tra le molecole oltre trent’anni prima. Per questa ragione, padre e figlia hanno bisogno di un incredulo Scott per rintracciare la donna perduta, quasi un modo per farsi perdonare i tafferugli di Lipsia. A uno Scott che proprio non riesce a tenersi lontano dai guai e una missione di salvataggio improbabile quanto rischiosa, aggiungiamo un paio di villain e i fidati collaboratori di Lang, capitanati da un Luis in grande spolvero: ecco confezionato un cinecomic d’intrattenimento ma non insipido.
IL COMMENTO
Le aspettative per il primo cinecomic Marvel post Infinity War, gargantuesco nella sua carica epica e nella cifra stilistica imponente, erano ridimensionate, diciamo a grandezza formica. Peyton Reed nella sua pellicola rinuncia a appesantire le scene di un eroismo da leggenda, consapevole che qualsiasi tentativo avrebbe rischiato di essere la caricatura di una grandiosità raggiungibile solo da un lungometraggio capace di tessere insieme pezzi di stoffa ricavati in dieci anni di storia, quale quello dei fratelli Russo, che sulle spalle hanno avuto l’arduo compito di incastonare storyline e personaggi complessi. Tuttavia, il merito di Ant-Man and The Wasp è proprio quello di incastrarsi nelle battute finali della Fase 3 del MCU, ormai avviata a conclusione, distendendo lo spettatore dopo il duro colpo inferto da Thanos e prima di quello che si preannuncia come un punto d’arrivo straordinario.
Se la famiglia è il leitmotiv della pellicola, ciò che invece la caratterizza è la spensierata ironia ma, fermi tutti, siamo ben lontani dalle battute trash di Thor: Ragnarok (ancora la ferita è aperta, dopotutto).
La sceneggiatura, scritta a più mani da Chris McKenna, Erik Sommers e Paul Rudd stesso, è leggera e divertente, ma non banale né fine a se stessa. Più di una volta scappa la risata e, qualcuno deve pur dirlo, un bel merito va a Michael Peña, interprete di Luis, la spalla comica ideale per Scott Lang. Sebbene il gusto della risata domini la pellicola, non mancano i momenti di tensione drammatica, affidati a uno dei due villain del film, Ghost (interpretata da un’ottima Hannah John-Kamen) – un cattivo donna, uno dei pochissimi del MCU, sebbene la controparte fumettistica sia di sesso maschile –. Certo, in sincerità, nessuno dei due antagonisti si può definire come personaggio ben articolato e temibile; anzi, se Sonny Burch (trafficante di nuove tecnologie e secondo antagonista) riassume lo stereotipo del miliardario criminale e capriccioso, Ava/Ghost disperde il proprio carisma di cattiveria in una spirale di rabbia cieca e frustrazione – giustificata da una particolare condizione fisica, per altro –.
Però, lo scopo del film non è tanto aprire la strada a nuove storie e nuovi personaggi, bensì intrattenere e nel contempo fare luce su un pezzo di storia non ancora nota, ma non così cruciale. Merito della buona riuscita del film va anche al cast, affiatato e dinamico: brevi ma intense le performance di Michael Douglas e Michelle Pfeiffer, altrettanto quella di Laurence Fishburn, che ha appeso al chiodo gli occhialetti da Morpheus e ha deciso di insegnare fisica all’università. Innegabile la chimica tra i due protagonisti, Evangeline Lilly e Paul Rudd e, lasciatemelo dire: il ruolo sembra cucito addosso a Paul Rudd, un Ant-Man perfetto, ironico, buon padre, coraggioso, quasi un eterno bambino.
DUE PROTAGONISTI E DUE MONDI CHE SI INCONTRANO
I due protagonisti dividono e condividono molte scene del film, complementari l’uno all’altra: da una parte Hope, precisa, intelligente e pungente, dall’altra Scott Lang, scanzonato, un po’ romantico e casinista. La pellicola, del resto, si sviluppa all’insegna del dualismo: due i protagonisti principali, due i villain, due i piani della materia, due dimensioni, con il risultato di duplicare le storyline che, però, si riallacciano sempre a una sola, in maniera lineare e senza scarti tra una sequenza e l’altra. E se nel primo capitolo centrale era la figura del padre, con Hank Pym che quasi fa di Lang un suo erede ideale, un genitore che trasmette al figlio un’eredità, in questa pellicola l’attenzione si sposta sulla figura della madre, quella perduta da troppo tempo e che va ricercata con urgenza. Il film si svolge, così, come una corsa contro il tempo, letteralmente: l’arco temporale è di soli tre giorni e, come è necessario muoversi velocemente nel Regno Quantico per rintracciare Janet, così Scott ha fretta di tornare a casa e terminare la propria reclusione in maniera irreprensibile.
IN CONCLUSIONE
Questi elementi fanno di Ant-Man and The Wasp una godibile action comedy che, soprattutto nelle scene finali, si sviluppa in corse sfrenate lungo le strade a saliscendi di San Francisco e nei vischiosi anfratti del Regno Quantico. Le scene qui ambientate sono poi visivamente accattivanti e mirabili, grazie a un uso magistrale degli effetti grafici, in un’esplosione di colori e forme che, come in un flash, sembra richiamare le atmosfere spaziali dei Guardiani della Galassia. Come in ogni film Marvel che si rispetti, anche in questo caso non mancano le due scene dopo i titoli di coda, una delle quali si riallaccia agli eventi di Infnity War, lasciando con il fiato sospeso… ma niente spoiler! Certo, in questo secondo capitolo viene meno la novità che tanto aveva sbalordito nella pellicola precedente: ormai abbiamo imparato a conoscere Ant-Man, sappiamo cosa aspettarci da lui, eppure nessuna scena risulta mai noiosa o fuori contesto. Non servono la ricchezza di Tony Stark, l’intelligenza di Bruce Banner o l’ascendenza divina di Thor:
Scott Lang insegna che anche un uomo comune, goffo e imperfetto, può essere un supereroe.
VOTO: 8
Francesca Belsito