Alla fine degli anni Settanta nella musica comincia a manifestarsi un certo malessere esistenziale, complici i cambiamenti del mondo, che non prende più solo forma in canzoni d’impegno politico ma (anche) in un genere chiamato new wave. Sebbene il genere nasca in Inghilterra, ci sono molti esempi di ottimi risultati anche in Italia. Oggi infatti vi parliamo di Canto pagano dei Moda (1987). No. Niente accento sulla a.
Il gruppo fiorentino presenta un sound molto più vicino al glam di Bowie, dei Japan o dei Duran Duran, come ci ricorda la voce calda e carismatica di Andrea Chimenti, ed erano quindi contrapposti al filone più dark rappresentato dai Diaframma di Federico Fiumani e Miro Sassolini. Questa opera seconda dei Moda è composta da un tessuto di tastiere che si intrecciano, dando così modo alla voce e alle chitarre di entrare in scena sotto diverse vesti.
Gran parte dei testi – a dir la verità, forse non sempre all’altezza – cantano l’emarginazione, la sconfitta di qualcuno davanti alla società, o alla vita, o all’amore, e solo nei brani in coda sembra esserci un riscatto. L’urlo di aiuto che diventa rabbia di Malato, l’angoscia di chi ha subito e vuole reagire fuggendo (magari proprio dalla vita) di Uomo dei sogni, la rassegnazione davanti a un amore finito in Addio a te. Questi primi tre brani riescono a conciliare sonorità rock non immediate a una certa orecchiabilità, che ritroviamo anche in Se fossi. Da qui in poi i testi abbandonano quella resa di cui parlavamo prima e la svolta è segnata dal guanto di sfida lanciato con Spara. Janine, invece, dipingeva quadri e cercava firme per strada ed è bastato un flirt con un doppiopetto a farle allontanare lo sguardo da quadri e firme… tanto “annoiati, poi, ti getteranno via”, quindi poco male.
La vera perla arriva alla fine – seppur dopo vari brani validi – con L’America, che scardina le pose della società borghese, l’adorazione del denaro e il conformismo dilagante già allora. Questo forse è il brano più bowiano e più punk di cui il disco sentiva il giusto bisogno. Canto pagano vede la partecipazione di Gianni Maroccolo al basso e la produzione del compianto Carlo Ubaldo Rossi.
Un disco di poco meno di 40 minuti che vale la pena di ascoltare, se non altro per rivivere un periodo d’oro e poco conosciuto della musica italiana. Vi pare poco?
Gianluca De Serio