Non di rado la gravidanza di una lavoratrice rappresenta un problema nei rapporti con il datore di lavoro, il quale a causa dell’assenza “tutelata” della dipendente decide di licenziarla o induce la stessa alle “dimissioni volontarie”.
Proprio per scongiurare e combattere tale pericolo è intervenuto il nostro legislatore, prevedendo un espresso divieto del licenziamento durante il periodo che va dalla gravidanza al primo anno di vita del bambino.
Tale divieto di licenziamento, tuttavia, non opera in casi eccezionali previsti e disciplinati dall’art. 54, comma 3, del D.Lgs. n. 151 del 2001: 1) colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto; 2) cessazione dell’attività aziendale; 3) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o scadenza del termine nei rapporti di lavoro a tempo determinato; 4) esito negativo della prova.
Partendo dalla prima ipotesi, una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 2004 del 26 gennaio 2017 – intervenuta sui contenuti dell’art. 54 – ha stabilito che, per il recesso, non è sufficiente la giusta causa ma occorre un qualcosa di più, rappresentato dalla “colpa grave”, non essendo sufficiente una giusta causa di licenziamento prevista dal contratto collettivo nazionale di categoria. Da ciò discende che la giusta causa e le conseguenti declaratorie del CCNL non sono sufficienti per procedere al recesso nel “periodo tutelato” ma che occorre una colpa soggettivamente più qualificata. Allo stesso modo, con l’ordinanza n. 28770 del 30 novembre 2017, la Cassazione ha ribadito che, il licenziamento intimato alla lavoratrice nel periodo ricompreso tra l’inizio della gravidanza ed il compimento di un anno di età del bambino, in violazione del divieto di cui all’art. 54 del D.Lgs. n. 151 del 2001, è nullo ed improduttivo di effetti, sicché il rapporto di lavoro va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino all’effettiva riammissione in servizio.
La seconda ipotesi richiamata dal Legislatore, in deroga al divieto di licenziamento, riguarda la cessazione dell’attività aziendale. In passato, sia la dottrina che la giurisprudenza, avevano fornito una lettura estensiva della norma prevedendo la possibilità del licenziamento anche in caso di cessazione di un ramo di attività o di un reparto autonomo dell’impresa, a condizione che il datore comprovasse l’impossibilità del reinserimento in un’altra struttura o reparto dell’azienda. Tale indirizzo è stato, poi, abbandonato e la Corte, con le sentenze nn. 18810/2013 e 18363/2013, ha ribadito che solo in caso di cessazione dell’attività dell’intera azienda è possibile il collocamento in mobilità della lavoratrice madre, trattandosi di norma che pone un’eccezione ad un principio di carattere generale, non soggetto ad interpretazione estensiva o analogica.
La terza esimente concerne l’ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice era stata assunta o la scadenza del termine in un contratto a tempo determinato. Nel caso di appalti di servizi, ad esempio, con la scadenza dell’appalto in capo ad un appaltatore e riassorbimento del personale impiegato da parte di un secondo appaltatore vincitore del successivo appalto, non è consentito escludere dalla forza lavoro, quindi licenziare, la lavoratrice in stato di gravidanza o madre di un bambino con meno di un anno di età, solo perché assente per maternità, facendo riferimento alla norma che consente la deroga al divieto di licenziamento per ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta. La Cassazione sul punto ha ritenuto, infatti, illegittimo il licenziamento intimato in un appalto di pulizie, ove l’impresa subentrante aveva assunto tutti i dipendenti ad eccezione di una lavoratrice assente per maternità che aveva un contratto di assunzione a tempo indeterminato.
La quarta ipotesi riguarda l’esito negativo della prova. Il recesso risulta legittimo soltanto se il datore di lavoro non è a conoscenza dello stato di gravidanza. Osserva la Corte Costituzionale con la sentenza n. 172 del 31 maggio 1996, che in caso contrario, per difendere la lavoratrice da prevaricazioni, il datore deve motivare il giudizio negativo concernente l’esito della prova. In questo modo si consente da un lato, all’interessata di fornire l’eventuale prova contraria e, dall’altro, al giudice di valutare i motivi reali del recesso, al fine di escludere con ragionevole certezza che esso sia stato determinato dallo stato di gravidanza.
Avv. Luca Gencarelli
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