Come è noto il termine mobbing trae origine dal verbo inglese “to mob” traducibile nell’assalire, nell’aggressione e venne coniato dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra individui della stessa specie, con l’obbiettivo di escludere un membro del gruppo.
Tale concetto esprime in maniera efficace l’intensità della violenza di quei comportamenti posti in essere nell’ambito lavorativo finalizzati – attraverso una violenza psicologica graduale e sistematica – all’emarginazione, all’isolamento fino, nei casi più gravi, al totale annientamento del lavoratore costretto alla fuoriuscita dall’azienda.
In buona sostanza, lo scopo del mobbing è quello di eliminare una persona scomoda, distruggendola psicologicamente tanto ad indurla alle dimissioni.
Dal punto di vista prettamente giuridico, i parametri normativi elaborati in tema di configurabilità del mobbing lavorativo dalla giurisprudenza di legittimità, prevedono che debbano ricorrere i seguenti elementi:
- a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio-illeciti o anche leciti, se considerati singolarmente e che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
- b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
- c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
- d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i componenti lesivi.
A confermarlo è stata la Corte di Cassazione con la recente sentenza del 20 dicembre 2017, n. 30606, la quale, in linea con le pronunce dei Giudici di merito, ha ritenuto sussistenti simili indici nella condotta di un datore di lavoro che modifichi il proprio atteggiamento nei confronti di un dipendente, in seguito alla scelta di quest’ultimo di rivolgersi ad un’organizzazione sindacale per la tutela dei propri diritti. Nella vicenda al vaglio della Corte era stato accertato, infatti, che il lavoratore era stato spostato di reparto senza alcuna giustificazione ed era stato emarginato con l’intento di indurlo a rassegnare le dimissioni.
Nello specifico, i Giudici della Suprema Corte hanno ribadito che, ai fini della sussistenza di mobbing, rilevano i comportamenti di carattere vessatorio con intento persecutorio messi in atto dall’azienda o da altri dipendenti ed hanno chiarito che un uso eccessivo del potere disciplinare per estromettere il dipendente è qualificabile come mobbing.
Tra l’altro, sempre in merito al rapporto tra esercizio del potere disciplinare e condotta datoriale mobbizzante, la Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata con l’ordinanza n. 28098 del 2017, ritenendo che l’irrogazione di sanzioni disciplinari possa qualificare una condotta di mobbing nel caso in cui abbia il carattere di sistematicità.
In realtà, già molti anni prima la Corte Suprema si era espressa in tal senso con la sentenza n. 6907 del 20 marzo 2009. Nello specifico gli ermellini avevano confermato la sussistenza di mobbing alla constatazione dell’irrogazione di una serie di serrati provvedimenti disciplinari (giudicati ex post infondati o eccessivi) adottati al mero fine di pervenire, in una valutazione complessiva degli stessi, al licenziamento di un dipendente (poi effettivamente avvenuto). La vicenda aveva visto una lavoratrice subire, nell’arco di cinque mesi circa, sette provvedimenti disciplinari, mentre all’ottavo (considerando l’aggravante della recidiva per il pregresso) la stessa veniva licenziata.
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Avv. Luca Gencarelli